Shakerato, non mescolato. Viaggio nei drink dei film classici pt. 6 Il Martini
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Quando ho iniziato a scrivere di cocktail nei film classici, mai avrei immaginato quanta curiosità avreste avuto sull’argomento. Ogni volta che pubblicavo un articolo, puntualmente arrivava la stessa domanda: “E il Martini?” E io rispondevo sempre: “Arriverà, perché il Martini si merita un articolo tutto per sé.”
Eccoci qui, al sesto capitolo di questo viaggio tra cinema e mixologia pronti a parlare del cocktail per eccellenza (gli altri 5 articoli li trovate qui). Il più iconico, il più elegante, il più citato e ordinato sul grande schermo. Il Martini non è solo un drink, è uno stile di vita, un simbolo di classe e raffinatezza, ma anche di mistero e ambiguità.
La sua storia è lunga e controversa, proprio come le sue molteplici versioni. Se c’è un cocktail che incarna il concetto di perfezione liquida, è questo. Non importa che sia servito secco, sporco, con una cipollina o persino shakerato e non mescolato, il Martini ha attraversato le epoche rimanendo sempre fedele a se stesso: limpido, essenziale, sofisticato.
E il cinema lo ha sempre saputo. Il Martini è stato il protagonista di scene memorabili, servito con maestria e bevuto con disinvoltura. Inizia tutto con una lezione di ritmo: ne L’uomo ombra (1934), il protagonista spiega al barista che un Manhattan si agita a tempo di fox-trot, un Bronx a tempo di one-step, e per un Dry Martini ci vuole il tempo di un valzer. Perché non è solo una questione di ingredienti, ma di armonia, equilibrio, precisione (di Nick e Nora Charles e del loro cagnolino Asta vi ho parlato qui).
Ma torniamo al Martini. Lo ritroviamo in commedie sofisticate, dove viene servito con un sorriso, ma anche in thriller e spy movie, dove diventa il drink di chi non perde mai il controllo. Si consuma nei salotti aristocratici, nelle sale da pranzo affollate e nei vagoni ristorante, sorseggiato con ironia, seduzione o tensione. C’è chi lo preferisce extra secco, chi mescolato nel grande mixing glass, chi con un tocco di salamoia, chi con una cipollina al posto dell’oliva. Ognuna di queste varianti racconta una sfumatura diversa della sua personalità.
Se fino a oggi avete pensato che un Martini fosse solo un Martini, preparatevi a scoprire quanto può essere versatile. E soprattutto, quanto il cinema lo abbia reso una leggenda.
Preparate i bicchieri e alziamo il sipario: il Martini è servito.
1) Martini Classico
La storia
Uno dei racconti più antichi ci porta in California, ai tempi della corsa all’oro. Si dice che un cercatore fortunato, dopo aver trovato una pepita, sia entrato in un bar prima di imbarcarsi per la città di Martinez e abbia chiesto qualcosa di speciale per brindare alla sua fortuna. Il bartender, con un guizzo d’inventiva, ha mescolato gin, vermouth dolce, maraschino e un tocco di bitter, servendo così quello che sarebbe diventato il primo antenato del Martini. Ma chi era questo bartender? Secondo alcuni, si trattava di Julio Richelieu, che avrebbe inventato la miscela proprio a Martinez intorno al 1870. La città, fiera di questa ipotesi, gli ha persino dedicato una targa commemorativa.
Altri, però, spostano la scena a San Francisco, e qui entra in gioco un nome leggendario: Jerry Thomas, il padre del moderno bartending. Secondo questa versione, Thomas avrebbe elaborato il cocktail Martinez presso il bar dell’Occidental Hotel di Montgomery Street. Il locale era una tappa fissa per i viaggiatori diretti al porto, pronti a imbarcarsi per Martinez, ed è proprio lì che il drink avrebbe trovato i suoi primi estimatori. Nel 1887, il Bartender’s Guide di Thomas codifica finalmente la ricetta del Martinez, con gin, vermouth dolce, maraschino e bitter.
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Ma si sa, le ricette non stanno mai ferme troppo a lungo. Poco alla volta, il cocktail si asciugò: il vermouth dolce lasciò spazio a quello secco, il maraschino scomparve, e il drink assunse la sua forma definitiva.
In poche parole, un Martini.
Altri, invece, guardano verso l’Italia, e il nome stesso sembra suggerirlo. Martini & Rossi, la storica casa produttrice di vermouth torinese, esisteva già da decenni quando il cocktail ha iniziato a farsi strada. L’ipotesi è affascinante: il Martini potrebbe essere nato proprio come un modo per valorizzare il vermouth piemontese. Ma c’è un piccolo dettaglio che fa vacillare questa teoria: nelle prime ricette del cocktail, la marca del vermouth non viene mai menzionata. Coincidenza? O il Martini deve il suo nome a qualcos’altro?
Un’altra teoria ci porta nella frenetica New York del primo Novecento, tra i divanetti in pelle e le luci soffuse del Knickerbocker Hotel, uno di quei luoghi in cui si scrivono storie senza saperlo. In quegli anni, tra le bottiglie dietro il bancone iniziano ad arrivare il gin Gordon’s e il vermouth Noilly Prat, due ingredienti destinati a cambiare il corso della mixologia.
A servirli con maestria c’è Clemente Queirolo, un giovane bartender ligure nato ad Arma di Taggia, emigrato da poco negli Stati Uniti. Ha poco più di vent’anni, ma ha già conquistato una clientela affezionata. Tra i suoi clienti c’è John D. Rockefeller, il magnate più magnate di tutti, l’uomo che trasforma ogni investimento in oro. E proprio a lui, un giorno, Queirolo serve una miscela semplicissima: due parti di gin Gordon’s, una di vermouth dry Noilly Prat, il tutto versato in un bicchiere ghiacciato e completato da un’oliva. Rockefeller ne è conquistato. “Come si chiama?”, chiede.
Queirolo esita. “Non saprei, signore… io l’ho solo messo insieme.”
Rockefeller lo guarda e sorride. “E tu, come ti chiami?”
E qui accade qualcosa che Queirolo non aveva previsto. Ha un pensiero fisso: evitare di tornare in Italia per il servizio militare. Un cambio di nome potrebbe aiutarlo a non farsi rintracciare, e così, con un colpo di genio o di destino, risponde: “Martini, signore.” È il cognome di sua madre, e da quel momento diventa anche il nome del cocktail che sta per conquistare il mondo.
Che sia nato tra i cercatori d’oro della California, nelle cantine torinesi o nelle mani esperte di un bartender newyorkese, una cosa è certa: il Martini ha attraversato epoche e stili senza mai perdere il suo fascino.
La ricetta
6 cl di gin
1 cl di vermouth
oliva (sotto salamoia) o scorza di limone
Come viene servito
Il Martini Classico viene preparato con la tecnica stir & strain, mescolando gli ingredienti in un mixing glass colmo di ghiaccio e poi filtrandoli in una coppa Martini ben fredda.
La decorazione finale dipende dai gusti: si può scegliere tra un’oliva verde oppure una scorza di limone, da spruzzare leggermente sulla superficie del drink per rilasciare i suoi oli essenziali.
In quale film lo abbiamo visto
Quando la moglie è in vacanza (1955) con Marilyn Monroe e Tom Ewell
(di questo film ve ne ho parlato qui)
Un Martini preparato nel modo meno convenzionale possibile. Nella famosa commedia di Billy Wilder, Marilyn Monroe chiede a Richard Sherman (Tom Ewell) qualcosa da bere con il gin. Lui le spiega che ci sono due possibilità: il gin tonic (che però non può prepararle perché non ha la tonica) e il vermouth gin, che sarebbe il Martini.
Marilyn è incuriosita e ordina con entusiasmo: "Mi solletica, allora prenderò quello. Un bel bicchierone!".
Richard si mette all’opera, ma anziché utilizzare la classica coppa Martini, prende un bicchiere alto (probabilmente un highball glass o un collins glass). Aggiunge il ghiaccio, versa il gin, poi il vermouth, e infine completa con un’oliva.
Marilyn prende un sorso, tossisce e commenta con innocenza: "Forse ci vuole ancora zucchero."
Richard, scandalizzato, replica subito: "No no, le sconsiglio decisamente lo zucchero negli alcolici."
Phffft… e l’amore si sgonfia (1954) con Judy Holliday, Jack Lemmon e Jack Carson
In questa commedia frizzante, Nina (Judy Holliday) e Robert (Jack Lemmon) sono una coppia divorziata che, nonostante la separazione, continua a incrociarsi nei momenti meno opportuni. E ogni volta, tra loro, spunta un Martini.
Uno dei primi episodi legati al cocktail avviene quando la madre di Nina, Hellen, arriva a New York per trovarla e decide di portarla fuori a pranzo. “Prima ti porto a pranzo. Ci faremo migliaia di Martini e ordineremo tutte le cose più costose del menu”, dichiara con entusiasmo.
Ma una volta arrivate al ristorante, scoprono che anche Robert è lì con il suo amico Charlie. Nessuno dei due vuole lasciare il locale, quindi si trovano costretti a condividere la situazione. Per smorzare l’imbarazzo, Robert ordina due Martini, precisando di volerne uno doppio. Al tavolo delle donne, Hellen fa altrettanto: “Due dei vostri favolosi Martini”, dice al cameriere. Nina aggiunge: “Il mio doppio.”
Il Martini torna nella scena finale, quando Nina è a casa da sola. L’arrivo improvviso di Charlie la sorprende, ma lei lo accoglie con un sorriso: “Entra pure. Sto giusto preparando un Martini.”
Charlie si mostra subito entusiasta e dice: “Perfetto! Ma servono i bicchieri ben freddi.”
A quel punto, Nina lo interrompe, orgogliosa: “Li ho messi nel frigider.”
Charlie annuisce con approvazione e aggiunge: “Ottima idea. È basilare. Sai, la prima cosa che faccio al mattino è lavarmi i denti. La seconda, mettere i bicchieri a raffreddare.”
Mentre versa gli ingredienti, Nina ripete a bassa voce: “Due parti di gin, una parte di vermouth”, (peccato che usi due diverse unità di misura dato che mette tantissimo gin e una lacrima di vermouth), e poi chiede con esitazione: “Ti sembra del colore giusto?”. Charlie annuisce, un po’ scettico: “Sì, mi sembra un bel biondo chiaro.” Ma appena lo assaggia, rimane perplesso. Nina se ne accorge subito: “Non è buono? Non ti piace, lo vedo. Devo aver sbagliato qualcosa… avrò ammazzato il gin.”
Nel finale, Robert torna da Nina con una caraffa di Martini appena preparata, ma inciampa sulle scale. Lei lo guarda con aria divertita: “Non avrai mica ammazzato il gin?”.
2) Dry Martini
Se il Martini classico nasce in un’epoca in cui il vermouth aveva un ruolo da protagonista, il Dry Martini è la sua versione più essenziale, più netta. Qui, il gin prende il comando, il vermouth diventa un dettaglio quasi trascurabile, e il cocktail assume una nuova identità: secco, cristallino, minimalista.
Le sue origini si perdono tra aneddoti e trasformazioni del gusto. Nei primi anni del Novecento, il Martini era ancora un cocktail equilibrato, con dosi generose di vermouth. Ma poi le cose iniziarono a cambiare. Con l’arrivo del Proibizionismo (1920-1933), il gin—facile da distillare clandestinamente—divenne la base alcolica più diffusa. Il vermouth, invece, più difficile da reperire, iniziò a essere ridotto sempre più nelle ricette. Il Martini si asciuga, diventa “dry”.
Negli anni successivi, questo processo si accentuò ancora di più. Se nei primi anni il rapporto gin-vermouth era di 3:1 o 5:1, ben presto si passò a dosi quasi simboliche: 10:1, 15:1 o persino 50:1, fino ad arrivare agli estremisti che sostenevano che bastasse solo pronunciare la parola “vermouth” sopra il bicchiere.
Sir Winston Churchill, per esempio, sosteneva di preparare il suo Martini versando gin ghiacciato e semplicemente guardando la bottiglia di vermouth, senza mai versarne una goccia. Altri, come Noël Coward, suggerivano di mescolare il gin e lasciare che il vento portasse l’aroma del vermouth nel bicchiere.
L’idea di secchezza ed essenzialità conquistò tutti: artisti, scrittori, imprenditori. Ernest Hemingway lo pretendeva gelido e pungente, servito in un bicchiere ghiacciato. Franklin D. Roosevelt, invece, non disdegnava una versione più morbida, con un tocco di salamoia d’oliva (prenderà il nome di Dirty Martini).
Il nome
Perché si chiama Dry Martini? La risposta sta tutta in un ingrediente: il vermouth dry.
A differenza delle prime versioni del Martini, che utilizzavano vermouth dolce, questa variante si è evoluta con l’uso del vermouth secco, un vino aromatizzato con erbe e spezie, caratterizzato da un profilo meno zuccherino e più erbaceo. Il termine "dry" non si riferisce solo alla quantità ridotta di vermouth, ma anche al fatto che questo tipo di vermouth ha pochissimo contenuto zuccherino, appena meno del 5%, rispetto al vermouth rosso che può arrivare anche al 15% di zucchero.
Questa caratteristica lo rende perfetto per chi preferisce un cocktail più nitido, pungente e asciutto, con il gin come protagonista assoluto.
La ricetta
6 cl di gin
0,5 cl di vermouth dry (o anche meno: alcuni bartender si limitano a sciacquare il bicchiere con il vermouth per poi scartarlo).
Oliva verde o scorza di limone, a scelta
Come viene servito
Il Dry Martini, proprio come il Martini Classico, viene preparato con la tecnica stir & strain, mescolando gli ingredienti in un mixing glass colmo di ghiaccio e poi filtrandoli in una coppa Martini ben fredda.
Un Dry Martini non si agita. Va mescolato lentamente con un bar spoon, per non intorbidire il liquido e mantenere la sua perfetta trasparenza. Agitarlo, sostenevano i puristi, non solo lo rendeva torbido, ma ne alterava la texture e il gusto, modificando la sensazione vellutata che un vero Martini deve avere.
La guarnizione come nella versione classica prevede 1 o 3 olive verdi infilate in uno stecchino o una scorza di limone.
In quale film lo abbiamo visto
Sabrina (1954) con Audrey Hepburn, Humphrey Bogart e William Holden
(di questo film ve ne ho parlato qui)
Nel raffinato mondo della famiglia Larrabee, il Martini Dry è una presenza fissa, soprattutto tra le mani del capofamiglia.
Una delle scene più memorabili si svolge quando Larry (Linus, in originale) Larrabee discute con suo padre, il quale è impegnato in una lotta senza quartiere contro un’avversaria insidiosa: un’oliva ostinatamente bloccata sul fondo del barattolo. Prima prova con il cucchiaio del mixing glass, ma niente. Poi prova infilandoci un dito ma con un nulla di fatto. Arriva addirittura a rubare un fermaglio dal suo impiegato, lo apre e prova a usarlo come lancia, ma il risultato è fallimentare.
Determinato a non arrendersi, il vecchio Larrabee prende una decisione drastica: versa direttamente il Martini dentro il barattolo e lo beve da lì.
Ma non è soddisfatto: vuole a tutti i costi quell’ultima oliva. Così, con caparbietà, tenta di infilare il dito nel barattolo, cercando di raggiungerla. Larry lo osserva spazientito e sbotta: “È mezz’ora che ti affanni con un’oliva”. Alla fine, prende il barattolo, lo frantuma con decisione sul tavolo e infila l’oliva direttamente in bocca al padre.
Il Martini ritorna più avanti nel film, quando Larry porta Sabrina nel suo appartamento. Mentre cerca tra gli armadietti per offrirle da bere, apre un’anta e, con tono scettico, dice:
"Non vorrei farmi un Martini con uno sciroppo." (In originale: “I wouldn’t want to make a Martini with crème de menthe”), sottolineando con ironia l’assenza degli ingredienti giusti.
Nel finale, ritroviamo ancora il vecchio Larrabee, intento a prepararsi l’ennesimo Martini. Questa volta, il barattolo delle olive è pieno e con grande soddisfazione ne tira fuori una. Mescola il cocktail nella caraffa e se lo versa nella coppa. Ma proprio in quel momento, suo figlio Larry ha un’illuminazione e decide di mollare il consiglio d’amministrazione per inseguire Sabrina.
Mentre lui si allontana di corsa, il vecchio Larrabee rimane seduto con il Martini in mano e scuote la testa:
“Comunque, visto che a quanto sembra io sono l’unico della famiglia a non essere completamente pazzo, mi assumerò la responsabilità di presiedere a questa riunione. Quando il signor David ci avrà liberato il tavolo.”
David, suo figlio minore, lo guarda e dice: “Siediti papà”. Si sente un rumore di vetri in frantumi e un'esclamazione di dolore:
“Le olive!”. Il vecchio Larrabee si è seduto sul barattolo che aveva infilato in tasca!
Il delitto perfetto (1954) con Grace Kelly, Ray Milland e Robert Cummings
(di questo film ve ne ho parlato qui)
Qui il Martini Dry diventa testimone di un piano diabolico. Tony Wendice (Ray Milland), ex campione di tennis con ambizioni da gentiluomo, ha orchestrato un piano perfetto per eliminare sua moglie Margot (Grace Kelly).
Mentre la conversazione tra i tre personaggi si sviluppa nel salotto di casa Wendice, Tony mescola il Martini con l’apposito cucchiaio da mixing glass, con la calma di chi non ha nulla da temere. Poi filtra il cocktail e lo versa nelle coppette Martini, servendolo a sua moglie e a Mark Halliday (Robert Cummings), lo scrittore di gialli che è anche il suo rivale in amore.
Ed è proprio in quel momento che Tony inizia a parlare di delitti perfetti, quasi come se stesse preparando il terreno per ciò che ha in mente. Un Martini secco e un discorso inquietante: il cocktail perfetto per un omicidio imminente.
La signora mia zia ( 1958) con Rosalind Russell
Se c’è un film in cui il Martini Dry viene preparato con una precisione quasi rituale, è proprio questo. In una delle scene più iconiche, il giovane Patrick accoglie il signor Babcock, un uomo rigido e formale, offrendogli un Martini con la sicurezza di un perfetto bartender.
“Secco o extra secco?”, chiede Patrick con disinvoltura.
Babcock, spiazzato da tanta padronanza, balbetta una risposta, ma Patrick è già al carrello dei liquori. Versa il ghiaccio nella caraffa, aggiunge il gin e inizia a mescolare con il bar spoon, illustrando con tono esperto la regola fondamentale:
“Girare, mai scuotere. Sennò il gin si sciupa.”
Poi si occupa del bicchiere: lo riempie di vermouth, lo fa roteare con cura per aromatizzarlo e infine lo elimina completamente, una tecnica tipica di chi ama un Martini ultra dry.
Infine, Patrick versa il gin filtrato nella coppa e chiede con educazione:
“Ce la vuole un’oliva?”
Ma prima che Babcock possa rispondere, Patrick anticipa la reazione e aggiunge:
“Zia Mame dice sempre che le olive prendono troppo posto in bicchieri così piccoli.”
3) Gibson Martini
La storia
C'è qualcosa di misterioso nel Gibson, quasi quanto la sua storia. A prima vista, sembra un Martini qualunque, con il suo gin limpido e il vermouth che gioca in sottofondo. Ma basta un dettaglio per fare la differenza: l’oliva qui non c’è. Al suo posto, una piccola cipollina bianca agrodolce in salamoia. Un cambio apparentemente semplice, che ha dato origine a un cocktail con un’identità tutta sua.
Le sue origini sono avvolte nel dibattito, e come ogni drink che si rispetti, anche il Gibson ha più di una storia da raccontare.
Una delle teorie più popolari ci porta nel cuore della San Francisco di fine Ottocento, tra i membri esclusivi del Bohemian Club, un circolo elitario di artisti, scrittori e uomini d’affari. Si dice che un certo Walter D.K. Gibson, un uomo d'affari della città, abbia chiesto al bartender di preparargli un Martini con un piccolo tocco distintivo, qualcosa che lo differenziasse dagli altri cocktail del circolo. La soluzione? Sostituire l’oliva con una cipollina agrodolce. Una scelta che avrebbe reso subito riconoscibile il suo drink… e che, secondo alcuni, gli permetteva di distinguere il suo Martini dagli altri senza rischio di scambio nei brindisi tra soci.
Ma la storia più curiosa è quella di un banchiere di nome Gibson, noto per i suoi pranzi d’affari. Si dice che, per restare lucido mentre i suoi clienti si lasciavano andare, avesse escogitato un trucco ingegnoso con il bartender: il suo bicchiere conteneva solo acqua ghiacciata, ma era guarnito con una cipollina per farlo sembrare identico ai Martini che venivano serviti agli altri. Con il passare del tempo, i suoi ospiti, convinti che fosse una normale variante del cocktail, hanno iniziato a ordinare un "Martini alla Gibson", e così il nome è rimasto legato alla versione alcolica con la cipollina.
La ricetta
6 cl di gin
1 cl di vermouth dry (o anche meno, a seconda dei gusti)
1 cipollina bianca agrodolce in salamoia
Come viene servito
Il Gibson, proprio come il Martini, viene preparato con la tecnica stir & strain, mescolando gin e vermouth in un mixing glass con ghiaccio, per poi filtrarlo con uno strainer in una coppa Martini ben fredda.
Ma basta un piccolo dettaglio per trasformarlo completamente: al posto dell’oliva, il bicchiere accoglie una cipollina bianca agrodolce in salamoia. Un cambio semplice, eppure in grado di aggiungere al cocktail una nota leggermente dolce e acidula, che lo distingue nettamente dalla versione classica.
In quale film lo abbiamo visto
Intrigo internazionale (1959) con Cary Grant e Eva Marie Saint
(di questo film ve ne ho parlato qui)
La scena si svolge a bordo del treno Twentieth Century Limited, dove Roger Thornhill (Cary Grant), un pubblicitario scambiato per una spia, cerca di sfuggire ai suoi inseguitori. Nel vagone ristorante, un cameriere si avvicina al suo tavolo e gli chiede se desidera un aperitivo. Thornhill, con il suo impeccabile abito grigio e l’aria rilassata di chi sa come muoversi, risponde con naturalezza:
"Sì, grazie. Un Gibson."
Poco dopo, il cameriere torna con la classica coppetta da Martini, limpida e trasparente, con una cipollina in salamoia immersa nel cocktail.
Nel frattempo, la misteriosa e affascinante Eve Kendall (Eva Marie Saint) lo osserva con attenzione. Tra i due inizia un flirt giocato tra parole affilate e sguardi allusivi, mentre Thornhill sorseggia il suo Gibson con disinvoltura.
La scelta del Gibson in questa scena non è casuale. Se il Martini è il drink del gentleman sofisticato, il Gibson aggiunge un velo di ambiguità e mistero: un cocktail per chi vuole distinguersi, proprio come Thornhill, un uomo che non è chi dice di essere, coinvolto in un intrigo che sfuma continuamente tra realtà e finzione.
4) Vodka Martini
La storia
Ci sono cocktail che nascono con secoli di storia alle spalle, e poi ci sono quelli che emergono quasi per caso, cavalcando il cambiamento dei gusti e delle mode. Il Vodka Martini appartiene alla seconda categoria.
Fino agli anni ‘50, il Martini era una questione esclusivamente di gin e vermouth, un equilibrio di aromi erbacei e note pungenti di ginepro. Ma poi, qualcosa cambia. Un nuovo distillato comincia a farsi strada nei bar americani: la vodka. Arriva dalle terre fredde dell’Europa dell’Est, ma è negli Stati Uniti che trova il suo vero successo, grazie alla sua capacità di lasciare il cocktail pulito, cristallino e senza i sentori botanici tipici del gin.
I primi a sperimentare con la vodka sono i bartender dei grandi hotel di New York e Los Angeles, sempre alla ricerca di nuove tendenze. Cosa succede se al posto del gin mettiamo la vodka? Il risultato è un drink più morbido, meno aromatico, ma altrettanto elegante.
Forse, però, avrebbero dovuto preoccuparsi meno del respiro e più del loro comportamento dopo qualche bicchiere. Un Martini non si nota dal profumo, ma dal modo in cui improvvisamente si diventa più loquaci, troppo rilassati… o più inclini a fare mosse azzardate in riunione.
All’inizio, il Vodka Martini rimane una semplice variante del classico, ordinata da chi voleva un gusto meno secco o preferiva la vodka per moda. Ma poi, tutto cambia. Inizia a comparire nei circoli più esclusivi, e a un certo punto finisce nelle mani di un personaggio destinato a trasformarlo in leggenda. Ma questa è un’altra storia… che racconteremo più avanti.
La ricetta
6 cl di vodka
1 cl di vermouth dry (o anche meno, a seconda delle preferenze: alcuni lo riducono a poche gocce, altri lo eliminano del tutto)
Scorza di limone o oliva verde, a scelta
Come viene servito
Il Vodka Martini segue la stessa preparazione del Martini classico, ma con una sostanziale differenza: il gin lascia il posto alla vodka, che regala al cocktail un gusto più morbido e neutro.
Anche qui si utilizza la tecnica stir & strain, mescolando vodka e vermouth in un mixing glass con ghiaccio e filtrando il tutto in una coppa Martini ben fredda.
Tuttavia, la grande differenza arriva con il dibattito più acceso della mixology: mescolato o agitato?
I puristi sostengono che il Vodka Martini, come il suo predecessore, vada rigorosamente mescolato per preservarne la trasparenza. Ma negli anni ‘60, un certo agente segreto (di cui vi parlo tra pochissimo) ha cambiato le regole, rendendo celebre la variante "Shaken, not stirred": agitato nello shaker con il ghiaccio, fino a ottenere un drink più freddo e leggermente più diluito.
La guarnizione? Si può scegliere tra una scorza di limone, per esaltare la freschezza della vodka, oppure un’oliva verde, per un tocco più sapido.
In quale film lo abbiamo visto
Licenza di uccidere (1962) con Sean Connery, Ursula Andress e Joseph Wiseman
Se il Martini era già da tempo il simbolo dell’eleganza nei bar di tutto il mondo, è stato un agente segreto britannico a consacrare il Vodka Martini nell’Olimpo dei cocktail più iconici del cinema.
Nel primo film della saga di James Bond, l’Agente 007 interpretato da Sean Connery ordina il suo drink con una richiesta destinata a diventare leggenda: “Vodka Martini. Agitato, non mescolato.” (“Shaken, not stirred.”)
Da quel momento, il Vodka Martini "shaken" diventa una firma del personaggio, un tratto distintivo che ne esalta lo stile sofisticato e l’attenzione ai dettagli. Nel film, il cocktail gli viene servito già pronto, mentre è ospite della residenza del misterioso Dr. No, a conferma che il suo drink preferito è conosciuto (e forse anche monitorato) da chiunque lo circondi.
La scelta della vodka, rispetto al gin, rafforza l’immagine di un Bond moderno, essenziale e pragmatico, capace di adattarsi alle circostanze senza perdere il suo fascino. Ed è proprio questa disinvoltura a rendere il Vodka Martini il drink perfetto per lui: forte ma elegante, diretto ma raffinato.
Negli anni successivi, il Vodka Martini accompagnerà tutti gli interpreti di Bond, da Roger Moore a Pierce Brosnan, fino a Daniel Craig, mantenendo intatta la sua aura di stile e mistero.
Una menzione speciale
Non posso non citarvi il Vesper Martini (che io personalmente ho scoperto quando l'hanno citato nella serie This is us). Il cocktail uscito dalla penna di Ian Fleming nel romanzo Casino Royale del 1953 è diventato una leggenda tanto quanto l’agente segreto che lo ha reso celebre. In un momento di audace raffinatezza, James Bond crea il suo drink perfetto, ordinandolo con una precisione che non lascia spazio a interpretazioni:
“Tre parti di gin, una di vodka, mezza parte di Kina Lillet. Agitare, non mescolare.”
Ma il Vesper non è solo un cocktail, è un omaggio: porta il nome di Vesper Lynd, la donna che, più di ogni altra, ha segnato il destino di 007.
Nel tempo, però, qualcosa è cambiato. Il Kina Lillet, l’aperitivo a base di vino e china che conferiva al drink un carattere leggermente amaro, è stato ritirato dal mercato nel 1986. Oggi si utilizza il Lillet Blanc, più morbido, spesso bilanciato con qualche goccia di bitter alla china per ricreare l’equilibrio originale.
Servito in coppa Martini con una scorza di limone, il Vesper è più forte, più deciso, più sofisticato. Non è un semplice Martini, ma un drink pensato per chi, come Bond, sa esattamente cosa vuole.
Abbiamo viaggiato attraverso epoche, aneddoti e schermi cinematografici per raccontare il Martini in tutte le sue sfumature. Da cocktail pionieristico a simbolo di stile senza tempo, ha attraversato il mondo della mixology e della settima arte con la stessa eleganza con cui scivola in un calice di cristallo.
Che sia classico, dry, sporco o con una cipollina, il Martini non è mai solo un cocktail. È un rito, un’affermazione di personalità, un dettaglio che distingue chi lo sceglie. Lo abbiamo visto sorseggiato nei salotti raffinati, nei vagoni ristorante, nei bar più esclusivi e persino in scene di tensione e inganno. Ogni volta, però, conserva il suo fascino impeccabile.
E così, come un buon cocktail, anche il nostro viaggio giunge alla sua ultima goccia. Ma una cosa è certa: la prossima volta che vedrete un Martini in un film, saprete che dentro quel bicchiere non c’è solo gin e vermouth, ma un secolo di storia, cinema e leggenda.
Salute, e alla prossima!
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