A piedi nudi nel parco: la commedia che rende lieve anche la salita

lunedì, ottobre 26, 2015

-Aggiornamento del 2025 -
Ci sono tre film che, in qualunque momento della mia vita, riescono sempre a farmi ridere fino ad avere male alle guance: Arsenico e vecchi merletti, La strana coppia 2 (sì, lo so, il sequel — ma mi stende più del primo!) e A piedi nudi nel parco.
Quest’ultimo, in particolare, occupa da sempre un angolo speciale nel mio cuore cinefilo.
Avevo scritto un articolo su questo film nel 2015. Oggi, a quasi dieci anni di distanza, ho sentito il bisogno di rimetterci mano: perché nel frattempo è cambiato il mio modo di scrivere, diventato ancora più puntiglioso, affamato di dettagli e retroscena, ma anche perché — diciamolo — certe perdite fanno più male di altre.
La recente scomparsa di Robert Redford mi ha spinta a riaprire questo cassetto.
Non ricordo nemmeno quando l’ho visto per la prima volta, ma so che è stato il mio primo incontro con Charles Boyer: rivederlo poi in ruoli drammatici, eleganti o tragici, fu quasi uno shock.
Se dovessi scegliere una scena preferita, non ho dubbi: l’inizio. Corie e Paul, appena tornati dalla luna di miele, non vogliono separarsi. Lei lo trattiene in stanza, e poco dopo, lo saluta davanti all’ascensore indossando solo la casacca del pigiama, con un tono da “incontro occasionale” che mette Paul in un imbarazzo meravigliosamente comico. In quel momento capisci tutto: tono, ritmo, e tipo di humour che ti aspetta.
A (quasi) sessant’anni dalla sua uscita, A piedi nudi nel parco riesce ancora a parlarci, e a farci ridere, con una naturalezza che sorprende.
Le dinamiche di coppia, i problemi di comunicazione, le discussioni assurde sul condizionatore o sui gradini di troppo: sono temi senza tempo.

È una commedia che mette d’accordo tutti, e che consiglio senza esitazioni anche a chi di solito "non guarda film vecchi".
Perché il sorriso che ti lascia in viso, quello sì, è sempre attuale.
Scoprire gli aneddoti sulla lavorazione di questo film è stato come inciampare in una valanga di meraviglie.
C’è chi si presentava sul set con due ore di ritardo senza che nessuno osasse dirgli nulla, chi era talmente infatuata del collega da non riuscire a smettere di sorridere anche nelle pause, e chi, per sfuggire al personaggio, si aggirava tra una ripresa e l’altra con un cappello da cowboy e gli stivali texani.
E poi ci sono le scale. Tante. Cinque piani senza ascensore, più una rampa. Non sembra, ma hanno un ruolo ben preciso in tutto questo. Così come i costumi, realizzati dalla “queen” Edith Head.
Più si scava, più vien voglia di rivederlo da capo, solo per cogliere tutti i dettagli che prima sembravano invisibili.
E fidatevi: alcuni sono talmente assurdi che sembrano scritti da Neil Simon stesso. Solo che, questa volta, sono veri.
Se vi va di scoprirli con me, continuate a leggere.
E alla fine dell’articolo, sì, ve lo dico già, trovate anche il film, pronto da vedere subito.
Perché certe commedie non si aspettano. Si guardano e riguardano. 
Il titolo originale è Barefoot in the park ed è un film del 1967 diretto da Gene Saks con protagonisti Robert Redford e Jane Fonda.

Trailer originale:
La trama in breve: Corie e Paul Bratter sono due neosposi alle prese con le prime, buffe difficoltà della convivenza. Lei è romantica, impulsiva, sempre pronta a godersi la vita; lui è un giovane avvocato pragmatico, amante dell’ordine e della tranquillità. La loro nuova casa, un minuscolo appartamento al quinto piano senza ascensore nel cuore del Greenwich Village, diventa il teatro di scontri, incomprensioni e riconciliazioni. Tra vicini eccentrici, suocere in visita e finestre che non si chiudono, i due si ritroveranno a mettere in discussione le loro aspettative sul matrimonio.

 
Nei primi anni Sessanta, l’America vive ancora l’eco rassicurante del dopoguerra, ma sotto la superficie comincia a muoversi qualcosa. È un Paese che si racconta ancora attraverso l’ideale della famiglia felice, della casa ordinata, della coppia perfetta che si sistema in un appartamento tutto suo. Ma i segnali del cambiamento iniziano a farsi strada: nei rapporti affettivi, nel modo di abitare le città e di immaginare il futuro.
È l’epoca in cui le giovani generazioni iniziano a mettere in discussione ciò che hanno ereditato. Le donne cercano spazi più ampi al di fuori della sfera domestica, gli uomini iniziano a mostrarsi vulnerabili anche nella narrativa mainstream, e le relazioni cominciano a essere raccontate con più ironia e meno idealizzazione.
Il cinema e il teatro reagiscono a questo clima con nuove storie: più leggere in superficie, ma profondamente consapevoli di quello che sta cambiando.
A Broadway, le commedie di costume iniziano a spostare lo sguardo dalla società in generale alla vita di coppia, ai piccoli drammi privati, alle dinamiche domestiche.
Allo stesso modo, Hollywood affianca ai grandi kolossal e alle storie epiche una nuova serie di film ambientati in appartamenti, uffici, piccoli condomini, dove le vere battaglie si combattono a colpi di battute.
Commedie come L’appartamento (1960) di Billy Wilder, L’erba del vicino è sempre più verde (1960) o La strana coppia (che a teatro debutta nel 1965 e arriva al cinema nel 1968) raccontano proprio questo: un’America che ride delle sue manie, dei suoi modelli in crisi, dei suoi tentativi, a volte goffi, di restare al passo con i tempi.
È una comicità che intrattiene, certo, ma che osserva da vicino. E nel farlo, rivela un mondo che sta cambiando più in fretta di quanto i suoi protagonisti riescano ad accettare.

Nel 1962, Neil Simon è già una delle penne più promettenti della scena comica americana. Ha iniziato scrivendo per la radio e la televisione, lavorando a sketch e varietà con nomi come Mel Brooks e Woody Allen, ma è nel teatro che trova la sua voce più autentica: dialoghi rapidi, battute taglienti, situazioni quotidiane che diventano specchi della nevrosi moderna.
Proprio in quell’anno scrive una nuova commedia, ispirata alle prime settimane del suo matrimonio con Joan Baim. Una storia semplice, ambientata tutta in un appartamento newyorkese, fatta di litigi, abbracci, compromessi e disastri domestici. Un piccolo manuale sentimentale travestito da farsa romantica, costruito con un meccanismo perfetto.
Il debutto teatrale viene fissato per l’autunno del 1963, e la produzione inizia a prendere forma. Il regista Mike Nichols — anche lui astro nascente — decide di affidare il ruolo del marito a un giovane attore ancora poco conosciuto: Robert Redford. A vederlo oggi sembra una scelta scontata, ma all’epoca non lo era affatto.

 
Redford ha ventisette anni, ha fatto gavetta in teatro, un po’ di televisione, e ha appena costruito una casa nello Utah con le sue mani. È affascinante ma non convenzionale, determinato a non farsi incasellare. Inizia le prove riluttante, si scontra con la partner in scena (Elizabeth Ashley), medita più volte di mollare tutto. Ma alla fine resta, e trova il ritmo giusto. Quel personaggio, Paul Bratter, lo segnerà per sempre.
Nel frattempo, però, dietro le quinte si muove qualcosa. I diritti cinematografici del testo fanno gola a più di uno studio: la Warner Bros. pensa addirittura di portarlo subito sullo schermo con Natalie Wood come protagonista.
Ma Simon sceglie diversamente, e avvia una nuova trattativa con la Paramount.
Nasce così una causa legale che si trascinerà per due anni e che verrà risolta solo nel 1965, quando finalmente si aprirà la strada per l’adattamento cinematografico.
Ma non sarà un passaggio automatico per nessuno. E tantomeno per Redford.
Lo spettacolo, intanto, è un trionfo: debutta al Biltmore Theatre di New York nell’ottobre del 1963 e resta in cartellone per oltre 1500 repliche, fino al giugno del 1967. Il pubblico lo adora. Le critiche, inizialmente tiepide, cedono presto davanti al successo in sala.

Nel cast originale c’è anche Mildred Natwick, nei panni della madre della protagonista, e tra lei e Redford nasce un rapporto di complicità e scherzi reciproci che resiste per tutto l’anno di recite. Lei lo fa ridere a scena aperta, lui le organizza sorprese per il compleanno.
Diversa, invece, la relazione con Elizabeth Ashley. Redford fa fatica a trovare un’intesa artistica con lei, e il clima in scena diventa via via più teso.
Lui si sente isolato, lontano dal tono della sua partner, al punto da iniziare a sabotare sottilmente alcune battute. Lei, dal canto suo, attraversa un periodo difficile, e solo anni dopo, in modo pubblico e diretto, riconoscerà le sue responsabilità:
"Ero già in analisi, ma proprio non riuscivo a connettere. A ventiquattro anni ero diventata una pazza furiosa, e tutta la frustrazione che avevo dentro la riversavo sulle persone intorno a me... Robert Redford e Mildred Natwick… sono stata odiosa con entrambi. Non potrò mai rimediare, ma spero che abbiano capito."
Redford regge per undici mesi — non uno di più — e alla fine del 1964 lascia il ruolo, senza alcun rimpianto. È stanco, insofferente, e pronto per passare oltre.
Non sa ancora che quel personaggio tornerà a cercarlo. E stavolta, sul set di un film.

Ma prima, un tribunale dovrà decidere a chi appartiene quella storia.
La Warner Bros. sostiene di averne già comprato i diritti con un gentleman’s agreement — un’intesa verbale, mai messa nero su bianco. Ma la giustizia non si fida delle strette di mano.
È un momento cruciale nella storia di Hollywood: il passaggio da una stagione fatta di patti informali a un sistema dominato da contratti blindati e strategie legali. La New Hollywood non è ancora nata, ma si sta già preparando a riscrivere le regole.
Dopo la conclusione della causa legale con la Warner Bros, nel 1965 la Paramount può finalmente procedere con l’adattamento cinematografico della commedia. A occuparsi della produzione è Hal B. Wallis, uno dei nomi più solidi della Hollywood classica, con all’attivo titoli come Casablanca e Sabrina. Al suo fianco c’è Joseph H. Hazen, suo storico collaboratore. La sceneggiatura viene affidata allo stesso Neil Simon, che adatta personalmente il suo testo per il grande schermo, mantenendo intatto il cuore della storia e dei personaggi.

La regia viene proposta inizialmente a Mike Nichols, che aveva già diretto lo spettacolo a Broadway. Ma Nichols, appena reduce dal set de Il laureato, rifiuta per non ripetersi. Al suo posto subentra Gene Saks, attore e regista teatrale al suo debutto cinematografico.

Per il ruolo maschile, non ci sono dubbi: la produzione vuole Robert Redford, che ha già interpretato Paul Bratter a teatro per quasi un anno. Ma Redford, in quel momento, è tutt’altro che entusiasta. Reduce da una serie di flop al cinema (Lo strano mondo di Daisy Clover, Questa ragazza è di tutti, La caccia), ha deciso di prendersi una lunga pausa e sta girando per la Grecia. Solo dopo forti pressioni contrattuali da parte della Paramount accetta di tornare — senza particolare entusiasmo — a indossare di nuovo i panni del personaggio.
Per la parte della protagonista femminile, la prima scelta della produzione ricade su Natalie Wood. Non è solo un nome di richiamo: è anche una presenza familiare per Redford, con cui ha appena condiviso il set in This Property Is Condemned e in Inside Daisy Clover. La chimica c’è già, almeno sullo schermo, e sembrava tutto pronto per vederli di nuovo insieme.
 Ma Natalie rifiuta. E il motivo non è solo artistico.
In quel periodo, la sua vita personale è in piena crisi. Il matrimonio con Robert Wagner si è appena concluso in modo doloroso, e lei sta attraversando una fase di profonda instabilità emotiva. Soffre di depressione, si allontana dai riflettori, e in diverse occasioni tenta — o minaccia — di togliersi la vita. In questo contesto, decide di prendersi una pausa dal cinema, interrompendo di fatto la sua carriera per quasi due anni. Il rifiuto del film non ha nulla a che vedere con la sceneggiatura o con il ruolo: è una scelta dettata dalla necessità di sopravvivere.
La ricerca della protagonista si fa quindi lunga e complicata. Tra le candidate più discusse ci sono Geraldine Chaplin, Faye Dunaway, Sandra Dee, Elizabeth Hartman, Marlo Thomas, Yvette Mimieux e perfino Nancy Sinatra.
Alla fine, la scelta cade su Jane Fonda. Una decisione che oggi sembra quasi naturale, ma che nel 1966 porta con sé una scommessa precisa.


Jane ha trent’anni, è figlia d’arte — suo padre è Henry Fonda, uno dei volti più autorevoli e profondi del cinema americano — ma per molti è ancora “la bella ragazza della porta accanto”, più nota per il cognome che per un’identità artistica definita.
Eppure, qualcosa sta cambiando.
 Negli ultimi anni ha alternato ruoli frivoli a personaggi più inquieti, ha calcato le scene teatrali, ha lavorato in Francia, si è fatta notare in La caccia, dove recita proprio accanto a Robert Redford. In quel film si intravede già una scintilla: non solo di chimica attoriale, ma di affinità generazionale.
Sono due giovani americani che, pur nel cuore del sistema hollywoodiano, iniziano a porsi domande diverse: sulla fama, sulla libertà, sul futuro. Hanno caratteri opposti, ma condividono un desiderio comune di non essere solo belli da guardare. Entrambi, a modo loro, cercano qualcosa di più.
Jane è brillante, impulsiva, curiosa, con una vitalità che sullo schermo diventa luce. E in questo ruolo — una neosposa che sogna un amore romantico e rocambolesco in un appartamento senza ascensore — può esprimere finalmente tutto il suo potenziale.
Il suo entusiasmo è travolgente. E forse non è un caso se, durante le riprese, sviluppa una cotta silenziosa per Redford. Non succederà mai nulla tra loro, come racconterà lei stessa più volte, ma quello sguardo ammirato si avverte, scena dopo scena.
E poi c’è Charles Boyer.

Questo è stato il primo film in cui l’ho visto, e ancora oggi mi fa un certo effetto pensarci.
Per me, allora, era semplicemente Velasco: teatrale, sopra le righe, irresistibile. Solo dopo ho scoperto la sua carriera immensa, i ruoli leggendari, le collaborazioni con attrici come Garbo, Bergman, Hepburn… Ma niente da fare: quel Velasco lì ha sempre avuto un posto speciale nel mio cuore.
È stato il mio primo Boyer — e il più difficile da dimenticare.
La sua carriera è un viaggio attraverso quattro decenni di cinema internazionale: dagli anni ’30 agli anni ’60, passando con disinvoltura da ruoli drammatici a commedie raffinate, da eroi romantici a figure più complesse.
È stato Napoleone accanto a Greta Garbo in Maria Walewska, un marito manipolatore in Angoscia con Ingrid Bergman, l’amante tragico in film come Arco di trionfo, Un grande amore e La porta d’oro. Ma ha saputo anche giocare con il suo personaggio, con leggerezza e autoironia, in commedie come Fra le tue braccia di Lubitsch e Tovarich di Litvak.
Non stupisce che, per decenni, Boyer sia stato considerato uno dei volti più affascinanti del cinema romantico.
A colpire il pubblico femminile — e confesso, anche me — non era solo la voce profonda e il portamento elegante, ma quel dettaglio minuscolo e magnetico: una vena che pulsa leggermente sulla sua tempia sinistra, visibile soprattutto nei momenti di tensione.
È una cosa che, la prima volta, mi era completamente sfuggita. Ma da quando ne sono venuta a conoscenza… non riesco più a non cercarla. È diventato uno di quei piccoli segreti da spettatrice appassionata, che rendono ogni sua scena ancora più viva.
Negli anni Sessanta, nonostante non fosse più al centro della scena, continua a divertirsi con ruoli eccentrici e fuori dagli schemi: in Il granduca e Mr. Pimm, in Come rubare un milione di dollari e vivere felici accanto ad Audrey Hepburn, e in Una ragazza da sedurre, una piccola commedia che adoro e che consiglio sempre.
E poi, sotto tutto questo, una ferita personale profondissima.
Nel 1965, quindi poco prima delle riprese di questo film, Boyer perse il figlio Michael, morto suicida a soli ventun anni. Non ne parlò mai pubblicamente, e scelse comunque di portare in scena un personaggio esuberante, sopra le righe, così diverso da quel dolore silenzioso.
Forse anche per questo, il suo Victor Velasco riesce a essere così toccante: mai solo caricatura, mai solo macchietta. C’è una dolcezza autentica nel suo modo di stare in scena, una nota più profonda che vibra sotto l’ironia.
 
Tra i volti già rodati dello spettacolo teatrale, c’era anche lei: Mildred Natwick, un nome che oggi potrebbe non suonare familiare a tutti, ma che nel corso del Novecento ha costruito una carriera incredibilmente ricca, attraversando teatro, cinema e televisione con una grazia tutta sua.

Aveva già interpretato la madre di Corie sul palcoscenico, e quando fu richiamata per il film portò con sé una tale sicurezza nel ruolo da renderlo indimenticabile. La sua interpretazione le valse una candidatura all’Oscar, e ancora oggi è uno di quei personaggi che rubano la scena con una sola battuta.
Io a Mildred ho dedicato un articolo intero (professione caratterista), ma qualcosa va detto anche qui: debutta sul grande schermo grazie a John Ford in Il lungo viaggio di ritorno, è la zia Amarilla accanto a Fred Astaire, la vedova irresistibile in Un uomo tranquillo, la strega comica in Il giullare del re e l’indimenticabile zitella in La congiura degli innocenti di Hitchcock.
 Ha ricevuto due nomination ai Tony Awards, vinto un Emmy, e lavorato in alcune delle serie TV più amate degli anni ’70 e ’80, da Love Boat a La signora in giallo.
Ma ciò che la rende unica è quella capacità tutta sua di non sovrastare mai la scena, eppure dominarla con eleganza. Come disse una volta a Maureen Stapleton: “La verità, Maureen, è che fino al giorno della tua morte non saprai mai se sei un’attrice brava o no.” Una frase che solo una grande può permettersi di dire.
 
E poi c’era Herb Edelman, il tecnico del telefono. Magari il nome vi dice poco, ma se avete visto il film almeno una volta, vi è bastato per ricordarvelo. Compare in sole due scene, eppure è uno di quei personaggi che sembrano esserci per caso... e invece lasciano il segno. Con quegli attrezzi in mano e quell’aria da uomo che ne ha viste tante, arriva ad aggiustare un cavo e finisce per leggere — e commentare — i drammi matrimoniali dei Bratter come se fossero il suo programma preferito.
Edelman aveva già interpretato Harry Pepper a teatro, e nel film mantiene intatta quella sua comicità pacata, fatta di tempi perfetti e facce storte al momento giusto. Era un attore brillante, con una carriera solida da character actor, uno di quelli che tengono in piedi un’intera scena con una battuta sola.
Pochi anni dopo lo ritroviamo in un’altra commedia firmata Neil Simon, La strana coppia (1968), accanto a Jack Lemmon e Walter Matthau, nei panni del poliziotto Murray: stesso spirito, stessa capacità di tenere il ritmo accanto ai grandi senza mai sfigurare.
E poi — colpo di scena — vent’anni dopo lo ritroveremo nella serie Cuori senza età (The Golden Girls), nel ruolo di Stan, l’ex marito di Dorothy, interpretata da Bea Arthur, che all’epoca di A piedi nudi nel parco era sposata proprio con Gene Saks, il regista del film.
Il mondo è piccolo, Hollywood ancora di più.

Le riprese di A piedi nudi nel parco sono iniziate il 31 ottobre 1966 con una settimana di prove, e da subito si è respirata un’atmosfera gioiosa. Prima negli studi della Paramount a Hollywood, poi direttamente a New York, dove la troupe si è spostata per girare alcune scene in esterni tra Washington Square Park, il Plaza Hotel e alcune vie del Greenwich Village. Lì, a causa della pioggia, sono stati costretti ad abbandonare il backlot dello studio e girare gli interni dentro veri negozi e bar del quartiere — una scelta forzata che ha però regalato al film una dose extra di autenticità.
Uno dei dettagli più memorabili è sicuramente legato all’appartamento dei Bratter, che si trova al quinto piano… senza ascensore. Ogni personaggio che arriva a fare visita si presenta alla porta completamente senza fiato, ed è uno dei running gag più riusciti dell’intero film. In realtà, però, per girare quelle scene è stato utilizzato sempre lo stesso identico set per ogni piano. Basta guardare con un po’ di attenzione per accorgersi che il tappeto ha sempre lo stesso strappo nello stesso punto, le ringhiere identiche e persino i pavimenti presentano gli stessi graffi. Ma è proprio questo il bello dei dietro le quinte: scoprire i trucchi, e apprezzare ancora di più l’illusione.
La gag, tra l’altro, ha creato qualche perplessità all’estero. Nella versione doppiata per la Francia, ad esempio, i dialoghi indicano che l’appartamento si trova addirittura al nono piano. In Francia, infatti, cinque piani senza ascensore non sembravano un ostacolo così impegnativo, quindi si è deciso di alzare il numero per rendere la fatica più credibile agli occhi del pubblico locale. Una piccola modifica che oggi ci fa sorridere, ma che dimostra quanto anche la traduzione debba tener conto del contesto culturale.
Ma torniamo al set. Dietro la macchina da presa, tutto filava liscio. Redford e Fonda hanno trovato fin da subito una bellissima intesa. Lei lo ha raccontato spesso: non vedeva l’ora di andare sul set, e anche quando Bob si presentava con un paio d’ore di ritardo (una sua piccola abitudine, pare), l’entusiasmo restava immutato.
 Lui, invece, sembrava fare di tutto per marcare una distanza ironica con il suo personaggio — quel Paul Bratter così rigido e impettito. Appena staccavano tra una scena e l’altra, lo si vedeva passeggiare in giro con l’abito elegante del personaggio, abbinato però a stivali texani e cappello da cowboy nero. Un modo per ricordare a tutti, forse anche a sé stesso, che quella non era davvero la sua vita.
Anche con il regista Gene Saks si è creato un clima giocoso… almeno per Bob. Una sera, lo ha convinto a salire in macchina per una corsa notturna da brivido: “Rideva come un pazzo,” ha raccontato Saks. “Io ero terrorizzato. Ero convinto che saremmo morti.” Ma anche questo fa parte del fascino delle produzioni anni Sessanta: professionalità, sì — ma sempre con un pizzico di follia.
A guardarlo oggi, quel film sembra costruito con la leggerezza di una piuma. Ma basta scavare appena sotto la superficie per scoprire un set pieno di aneddoti, dettagli curiosi e piccoli colpi di genio artigianale che rendono tutto ancora più affascinante.


I costumi
Quando il film esce nel 1967, Edith Head è già una leggenda vivente di Hollywood. Ha iniziato la sua carriera alla Paramount nel 1924 come semplice disegnatrice, diventando poi la costumista di punta dello studio per quasi trent’anni. Nel 1967 è ancora legata alla Paramount (lascerà solo qualche anno dopo, passando alla Universal nel 1967–68), quindi era naturale che fosse lei a occuparsi dei costumi di una produzione come questa, tratta da un grande successo di Broadway e destinata al pubblico mainstream.

Quanto agli Oscar: nel momento in cui lavora a A piedi nudi nel parco, Edith Head ne ha già vinti otto (su un totale record di 35 nomination, primato ancora imbattuto). La sua fama non deriva solo dalla quantità di premi, ma anche dalla capacità di adattarsi ai generi più diversi: dalle commedie sofisticate agli storici kolossal, fino al cinema contemporaneo.
In un progetto come questo, il suo talento sta proprio nel rendere i costumi credibili e moderni senza mai farli sembrare sopra le righe: vestire personaggi che devono sembrare “gente vera” ma che, sullo schermo, diventano icone. È per questo che Paramount si affida ancora a lei: nessuno sapeva bilanciare glamour e verosimiglianza meglio di Edith Head.
Ma vediamo insieme i look dei protagonisti.

Appena la incontriamo al Plaza, Corie è l’immagine stessa della sposa giovane e radiosa. Il cappottino azzurro chiaro, con collo in pelliccia scura e bottoni tondi, la avvolge come un bozzolo di eleganza borghese. È un capo tipico della prima metà dei ’60, dalle linee pulite e appena svasate, confezionato probabilmente in lana pettinata. Accostato a una clutch argentata e ai guanti scuri, racconta una ragazza che entra nella vita coniugale con la grazia di un’eroina da copertina di Vogue. Ma già nella scena successiva, fuori dalla suite, il tono cambia radicalmente: Corie si mostra con una camicia da notte “rubata” all’abbigliamento maschile – una camicia oversize azzurra portata come pigiama. Piedi nudi, capelli sciolti: la libertà irriverente della neosposa, lontanissima dall’ideale domestico tradizionale.
Quando arriva nella nuova casa, i suoi abiti raccontano subito un’altra storia. Il montgomery beige con alamari è un pezzo quasi sportivo, pratico, che segnala il passaggio alla quotidianità. Sotto, un dolcevita arancione acceso e pantaloni a sigaretta in velluto verde scuro: un abbinamento cromatico ardito, figlio della nuova moda giovanile, che rompe con la compostezza delle generazioni precedenti. Il velluto a coste, tessuto principe del casual anni ’60, dà subito una consistenza tattile e concreta, quasi a sottolineare l’impatto fisico della vita al quinto piano senza ascensore.
 
Il giorno seguente, quando corre incontro a Paul, Edith Head la veste da vera ragazza della Swinging New York (e con echi londinesi): minigonna a righe multicolori, giacca scamosciata beige, dolcevita bordeaux che spunta sotto il colletto. È il look più di tendenza del film, fatto di materiali morbidi e di tagli corti che mettono in primo piano la vitalità e la libertà di movimento. La pelle scamosciata era un must della metà del decennio, segno di una moda più informale, vicina ai gusti della strada.
Per la serata a quattro, invece, Edith Head torna alla raffinatezza. Corie indossa un abito rosa senza maniche, linea ad A, decorato da un fiocco sulla spalla: semplice, ma studiato per brillare. Il cappottino bouclé nello stesso colore completa il quadro. È un rosa deciso, non bambinesco, che rimanda alle nuove palette della moda di quegli anni, sempre più orientate ai colori pop e saturi. È la Corie civettuola e sociale, pronta a fare da padrona di casa e a impressionare il vicino bohémien.

Quando la serata finisce, il guardaroba si fa intimo e dimesso: una vestaglia azzurra leggera, portata sopra pantaloni bianchi, quasi un ritorno a un guscio protettivo domestico. Qui i tessuti morbidi raccontano la stanchezza della festa e anticipano le tensioni della coppia.
Il cerchio si chiude con l’ultimo outfit: dolcevita giallo limone e pantaloni verde oliva, completati dagli stessi stivaletti scamosciati. È un insieme squillante, costruito su contrasti cromatici che riflettono la sua indole brillante e ostinata. Non c’è più la grazia borghese del Plaza né la civetteria rosa della serata: qui Corie è la ragazza moderna, indipendente, che sa litigare, separarsi e ritrovarsi, con addosso i colori forti di un decennio che ha fatto della moda un manifesto di libertà.

Se Corie attraversa il film con un guardaroba variopinto, che esprime la sua energia vitale e la sua ribellione alle convenzioni, Paul si muove sempre dentro i confini del completo maschile. Edith Head lo veste con una coerenza quasi monotona: abiti grigi o blu, cravatte sobrie, cappotti scuri. Ma proprio questa apparente rigidità diventa linguaggio: l’abbigliamento di Paul è la sua gabbia, e quando la gabbia si incrina, lo capiamo dai dettagli.

Al Plaza, nel pieno della luna di miele, è l’immagine perfetta del giovane avvocato in carriera. Cappotto nero impeccabile, sciarpa grigia di lana sottile, camicia bianca e cravatta tono su tono. È l’apoteosi dell’eleganza maschile anni ’60, quella codificata da Brooks Brothers e adottata dalla middle class newyorkese: taglio sobrio, spalle dritte, tessuti pettinati. Paul sembra uscito da un manuale di bon ton metropolitano.
Il giorno dopo, quando esce dal lavoro e si trova davanti a tutti i difetti della nuova casa, la sua mise è quasi identica ma leggermente più “umana”: il cappotto resta nero, ma sotto porta un abito grigio medio, camicia azzurra e cravatta blu. Il grigio e il blu sono la divisa quotidiana dell’avvocato, simboli di affidabilità e compostezza. Ma, sullo sfondo delle scale senza ascensore e dei muri spogli, questa compostezza stride: Edith Head accentua così il contrasto tra l’uomo pratico e il caos domestico che Corie abbraccia con entusiasmo.

Per la serata a quattro, Paul sfoggia l’abito più elegante del suo guardaroba: un completo blu scuro, camicia bianca e cravatta blu a righe bianche e bordeaux. È un richiamo al look Ivy League, sofisticato e urbano, perfetto per una cena formale. Ma in quel contesto diventa quasi caricatura: mentre Corie indossa un rosa acceso e Velasco un kimono teatrale, Paul resta imbrigliato nel suo blu da club universitario, incapace di sciogliersi.
Il punto di svolta arriva alla fine, quando alticcio e disperato per la rottura, lo vediamo nello stesso abito grigio del giorno precedente, ma disfatto. La camicia è stropicciata, la cravatta allentata, i pantaloni spiegazzati. Infine si toglie le scarpe e resta scalzo. È il gesto liberatorio che dà senso al titolo: solo quando si spoglia della sua “armatura” borghese Paul riesce a incontrare davvero Corie. Edith Head, con un semplice gioco di ordine/disordine, traduce in costume la trasformazione del personaggio.
 
Velasco entra in scena già vestito come un personaggio teatrale. Edith Head lo immagina come l’opposto di Paul: eccentrico, pittoresco, quasi un attore nel proprio palcoscenico quotidiano. Lo vediamo con un completo in tweed grigio chiaro, toppe di pelle sui gomiti, sciarpa bordeaux, papillon rosso e cappello verde: un patchwork di dettagli che lo rendono subito riconoscibile, “altro” rispetto alla sobrietà newyorkese. È l’artista europeo trapiantato nel Village, con una vena da dandy che affascina e diverte.

Ma il suo guardaroba non si ferma lì: in casa veste un kimono orientale in seta porpora, decorato con motivi geometrici e bordi colorati. È il capo più dichiaratamente teatrale del film, un costume da salotto che evoca mondi lontani e rafforza la sua aura cosmopolita. Nel corso della serata a quattro, poi, Velasco sceglie una giacca doppiopetto blu navy con bottoni dorati e un foulard fantasia: l’ennesimo segno di uno stile esibito, volutamente sopra le righe, a metà tra club inglese e caricatura del playboy. In ogni look, Edith Head usa tessuti ricchi e colori pieni per trasformarlo nel catalizzatore dell’azione: accanto a lui, Paul appare ancora più rigido, ed Ethel sorprendentemente pronta a lasciarsi sedurre da questa vitalità.

 
La madre di Corie è, all’inizio, l’immagine della rispettabilità borghese. Il suo cappotto di pelliccia scura, portato sopra un completo beige con berretto nero, guanti e scarpe a tacco basso, la colloca nel mondo delle “madri newyorkesi” prudenti e un po’ ansiose. Tessuti pratici, colori neutri: Ethel è l’opposto della figlia e, in un certo senso, la spalla naturale di Paul.
Quando però si lascia trascinare da Velasco in un’uscita improvvisata, Edith Head le concede un look sorprendente: un completo viola con giacca scura e collana di perle, più raffinato e deciso, quasi a suggerire che sotto la corazza materna c’è una donna pronta a vivere ancora. È un cambio sottile, ma significativo: i toni freddi e scuri lasciano spazio a un colore intenso, che illumina la sua figura.
Infine, il colpo di scena: Ethel indossa il kimono di Velasco, segno visivo di una metamorfosi inattesa. La donna che temeva le scale senza ascensore e la disorganizzazione della figlia si trova avvolta in un capo teatrale, orientaleggiante, che appartiene al mondo dell’uomo che l’ha incuriosita. È un momento di leggerezza e liberazione, e i costumi lo raccontano meglio di mille battute: Edith Head gioca con i tessuti e i colori per mostrarci come anche la figura più rigida possa sciogliersi, almeno per una notte.

La colonna sonora
Con A piedi nudi nel parco la Paramount affida la colonna sonora a Neal Hefti, musicista già molto noto nel mondo del jazz e delle big band. 
 
Trombettista, arrangiatore e compositore, Hefti aveva lavorato con Count Basie e Frank Sinatra, ed era appena diventato una star televisiva grazie al tema di Batman (1966) — quella sigla con il celebre “na-na-na-na-na-na-na-na Batman!” che tutti ricordano.
Qui porta la sua cifra più riconoscibile: leggerezza swing, ritmo vivace, ironia musicale. Il tema principale del film — Barefoot in the Park Theme — è una melodia frizzante, con fiati brillanti e un andamento da commedia romantica sofisticata, a metà tra Broadway e il jazz club. È un tema che si ripete in varie forme: a volte come pezzo orchestrale pieno, a volte come motivo più intimo al pianoforte o con orchestrazioni leggere, sempre legato ai momenti di gioco e tensione della coppia.
Un dettaglio curioso: negli anni Sessanta molte commedie romantiche avevano colonne sonore volutamente spensierate, spesso jazzate, per rispecchiare il nuovo pubblico giovane. Hefti era perfetto: sapeva rendere musicale lo scontro tra il rigore di Paul e la vitalità di Corie. Il suo tema diventa quasi un terzo personaggio, che commenta con ironia la vita al quinto piano senza ascensore. 
Gene Saks l’anno successivo affiderà proprio a Hefti la musica de La strana coppia (1968), consegnando al cinema uno dei temi più celebri di sempre.
Barefoot in the Park ha debuttato nelle sale il 25 maggio 1967 al Radio City Music Hall di New York, dopo un’anteprima benefica patrocinata dal sindaco John Lindsay. Il pubblico ha risposto con entusiasmo immediato: già dalle prime proiezioni si è capito che la commedia avrebbe fatto centro.
La critica, come spesso accade con le trasposizioni teatrali, si è divisa. Variety ha sottolineato la perfetta sintonia tra Redford e Fonda, elogiando la “chimica naturale” tra i due protagonisti e definendo Redford “un attore eccezionale con una carriera luminosa davanti a sé, sulla scia di Cary Grant.”
Anche il New York Post, con Archer Winsten, ha applaudito l’efficacia della sceneggiatura di Simon: “La quantità di divertimento che Neil Simon riesce a trarre da situazioni ormai logore è sorprendente”. E in effetti, il segreto del successo stava tutto lì: nella semplicità delle premesse, rese universali da una scrittura brillante e una messa in scena calibrata con precisione.
Non tutti, però, sono stati convinti. Bosley Crowther del New York Times ha criticato la mancanza di profondità nei personaggi, parlando di “gag forzate” e “dialoghi ben poco plausibili”. Ma il pubblico, come spesso accade, si è lasciato guidare dal cuore: le sale erano piene, e gli incassi continuavano a crescere settimana dopo settimana.

Il film ha ricevuto una nomination all’Oscar per la straordinaria interpretazione di Mildred Natwick nel ruolo della madre di Corie, Ethel Banks, come Miglior Attrice non protagonista. Una candidatura meritatissima, che ha sancito il valore del suo personaggio — comico, tenero e sorprendentemente moderno.
Parallelamente, il successo commerciale ha portato la pellicola a essere uno dei titoli di punta della Paramount in quell’annata, consolidando la posizione di Redford come nuova stella hollywoodiana e quella di Fonda come volto fresco e versatile del cinema americano.
A distanza di oltre cinquant’anni, A piedi nudi nel parco resta una delle commedie romantiche più amate del suo decennio. Il film è spesso considerato un punto di riferimento per la screwball comedy moderna, con una coppia al centro che ha saputo incarnare — e aggiornare — i modelli classici dell’amore imperfetto e quotidiano.
Ha inoltre segnato un momento di transizione: Redford ha finalmente ottenuto il suo primo grande successo al box office, dopo una serie di film che non avevano lasciato il segno. Per lui, questo film ha rappresentato la porta d’ingresso definitiva nel grande cinema americano.
Oggi è impossibile non pensare a Barefoot in the Park come a una delle opere fondamentali per capire la New Hollywood prima che esplodesse. È la commedia del compromesso e dell’adattamento, tra l’entusiasmo del cambiamento e le difficoltà della convivenza, raccontate con garbo e intelligenza. E continua a far ridere — davvero — anche a chi l’ha visto decine di volte.

QUOTES:
Corie (chiama il numero del meteo): stasera tempo copert con un po’ di neve.

Tecnico: Però pensi, lei sarà la prima in città a vederla cadere (indicando il buco nel lucernario)
Corie (a Paul): per essere un avvocato sei un bravo baciatore

Paul: Questa cenetta che hai in programma per stasera probabilmente si dimostrerà un fiasco
Corie: Perchè? Può darsi invece che abbiano molto in comune.
Paul: Ma stai scherzando? Tua madre una tranquilla delicata signora del New Jersey insieme al nostro Conte di Montecristo?

Ethel (dopo aver fatto le scale): Mi sento come se fossi morta e andata in cielo. Solo che ho dovuto arrampicarmici.

Corie: Perchè non proponi una legge alla Corte Suprema. Solo le coppie in possesso di un certificato psichiatrico che dimostri la loro maturità emotiva dovrebbero sposarsi!

Paul: E quando sono stato impettito e dignitoso?
Corie: Direi sempre. Hai sempre il vestito adatto, l’aria adatta, dici sempre la cosa adatta, se quasi un uomo perfetto! E poi ti manca completamente il senso dell’umorismo. Giovedì per esempio non hai voluto camminare a piedi nudi con me nel parco.
Paul: Capirai c’erano 8 gradi sotto zero.
Corie: Precisamente. E’ logico, sensatissimo, ma non è divertente.

Corie: Paul se n’è andato. L’hai visto uscire di casa con la valigia dove pensavi andasse?
Ethel: Non saprei, so quanto è ordinato e ho pensato fosse la spazzatura.

Ethel: Abbi cura di lui, fallo sentire importante. Se ci riesci avrete un matrimonio felice e meraviglioso, come il 10% delle coppie.

Corie: Non sei più lo stesso voglio il vecchio Paul
Paul: Quel vecchio quacchero.
Corie: Non è un quacchero, è forte e fidato e ha cura di me. Voglio che sappia quanto lo amo. Riparerò il buco nel lucernaio, e anche la perdita nell’armadio. E lo porterò anche in braccio quassù ogni sera, perchè è così che lo amo.
Corie (urlando): Mio marito, Paul Bratter, giovane avvocato esordiente, è ubriaco come una zucca e io lo amo.
Paul: Anche io ti amo Corie. Anche quando ce l’avevo con te ti amavo.

CLIP:









Eccovi il film
ULTIMO MA NON PER IMPORTANZA

Se volete rimanere aggiornati sui miei articoli potete iscrivervi alla Newsletter che ho creato, è sufficiente cliccare su questo link https://blogfrivolopergenteseria.substack.com/
basta inserire la vostra mail e cliccare Subscribe, riceverete via mail la conferma dell'avvenuta iscrizione e ogni settimana quando uscirà un nuovo articolo sul blog verrete avvisati. 

Vi ringrazio per sostenermi sempre!








Potrebbe piacerti anche

3 commenti

  1. Ricordo un altro film con Jane Fonda "Una domenica a New York" anacronistico per l'argomento ma l'introspezione esilarante
    Adriana
    s.p.p.: sarebbe bella una rubrica dal titolo "chicche di cinema" ad esempio scene secondarie alla trama o ai protagonisti principali, ma indimenticabili

    RispondiElimina
    Risposte
    1. Ti ringrazio per il commento. Quel film non lo conosco ma già solo il fatto che ci sia la mia città preferita, New York, nel titolo è un buon motivo per aggiungerlo alla lista dei film da vedere ;-) per il consiglio che mi hai dato sulla rubrica non ho capito bene cosa intendi, perchè per il momento ho la rubrica L'angolo dei film (dove appunto racconto aneddoti sulla lavorazione, il cast e la trama del film), le Full-Immersion dove prendo un attore o un tema e parlo di 2 o più film, Accadeva a Hollywood (dove parlo di storie d'amore, faide e litigi, insomma i segreti di Hollywood) e infine in Varie ho messo un po' tutto il resto. A te cosa piacerebbe leggere? Sono aperta ai consigli :-)

      Elimina

↑ Torna su