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Ci sono film che accarezzano l’anima. Arianna è uno di quelli. Non ha bisogno di effetti speciali, di colpi di scena o di grandi dichiarazioni: arriva in punta di piedi, con la grazia di un valzer lento, e resta lì, lasciandoti un sorriso gentile, uno di quelli che non si dimenticano in fretta. Ogni volta che lo rivedo, mi ritrovo a respirare meglio. Mi sento più leggera, come se la vita fosse un po’ più semplice, l’amore un po’ più possibile. È un film che fa bene. Terapeutico, nel senso più profondo e affettuoso del termine.
Eppure, nonostante la firma di Billy Wilder, nonostante Audrey Hepburn e Gary Cooper, Arianna è rimasto un po’ nell’ombra. Non ha avuto il riconoscimento che meritava. Troppo spesso, quando se ne parla, tutto si riduce alla questione dell’età di Gary Cooper. Era “troppo vecchio” per Audrey, dicono. Ma io credo che sia proprio questa scelta, così audace e dissonante, a rendere il film ancora più interessante. Perché Arianna non parla solo di amore: parla del tempo, del desiderio, delle insicurezze. Parla anche della paura di invecchiare, un tema che il cinema raramente affida a un protagonista maschile. E sapere che Cooper, l’anno dopo, ha davvero cercato di combattere il tempo con un lifting – purtroppo poco riuscito – mi ha toccata nel profondo.
Con questo articolo voglio portarvi dentro il mondo di Arianna per restituire al film quello spazio che si è guadagnato con grazia, ma che non ha mai preteso.
Il titolo originale è Love in the afternoon ed è un film del 1957 diretto da Billy Wilder con Audrey Hepburn e Gary Cooper.
La trama in breve: Arianna Chavasse è una giovane e curiosa studentessa di musica che vive a Parigi con il padre, un investigatore privato specializzato in casi di infedeltà . Un giorno scopre, tra i fascicoli del padre, che uno dei suoi clienti vuole uccidere Frank Flannagan, affascinante e maturo playboy americano, colpevole di frequentare sua moglie. Per impedirlo, Arianna corre all’hotel Ritz e si sostituisce all’amante, salvando Frank senza svelare la propria identità .
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Alcune scene del film |
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Foto promozionali |
Prima di parlare di questo film nato negli anni ’50, dobbiamo fare un salto indietro di più di trent’anni. È il 1920 quando, in Francia, esce un romanzo destinato a percorrere un lungo viaggio: Ariane, jeune fille russe, scritto da Jean Schopfer sotto lo pseudonimo di Claude Anet. Racconta la storia di una giovane donna e dell’amore che la travolge per un uomo maturo, affascinante, elusivo. Un amore pieno di ambiguità , tra ingenuità e calcolo, libertà e finzione. Il libro ottiene un discreto successo, e negli anni successivi viene adattato più volte al cinema: una versione muta nel 1926, poi tre trasposizioni nel 1931, in tedesco, francese e inglese, dirette da Paul Czinner. Poi cade lentamente nel silenzio. Ma non del tutto. Qualcuno, quel racconto, lo porta con sé.
È il caso di un giovane emigrato austriaco, nato a Sucha, in Galizia, cresciuto tra i caffè letterari e le redazioni di Berlino. Si chiama Samuel Wilder, detto Billy. Ebreo, ironico, brillante, negli anni Trenta scrive sceneggiature per il cinema tedesco e frequenta un mondo cosmopolita e intellettuale. Ma quando Hitler prende il potere, capisce che deve fuggire. Passa da Parigi, poi arriva a New York, e infine a Hollywood, dove inizia la sua seconda vita. Prima come sceneggiatore – Ninotchka, scritta per Lubitsch, resta un punto di svolta – poi come regista, con una voce unica: tagliente, sentimentale, precisa come un bisturi. Ma lo sguardo di Wilder resta europeo, persino quando si cala nei meccanismi perfetti del sistema americano. Da Lubitsch ha imparato che si può parlare d’amore con leggerezza, senza mai essere banali. E quell’eredità lo accompagna sempre, anche nei suoi film più cinici.
Nella seconda metà degli anni ’50, il cinema si trova in equilibrio tra due mondi. Da un lato, il fascino intatto della Hollywood classica, con le sue storie romantiche, i divi intramontabili, le ambientazioni eleganti. Dall’altro, un vento nuovo che soffia dall’Europa – e in particolare dalla Francia – dove giovani cineasti stanno per ribaltare ogni regola con una rivoluzione chiamata Nouvelle Vague. Anche se non ha ancora conquistato il grande pubblico, quel fermento si sente nell’aria: lo spettatore comincia a desiderare qualcosa di diverso, più intimo, meno costruito.
In questo scenario, l’immaginario collettivo continua però a essere fortemente segnato dal mito dell’amore romantico, soprattutto nelle sue declinazioni più glamour. Le commedie americane giocano con le apparenze, con i travestimenti e con il desiderio, ma lo fanno restando all’interno di confini morali molto rigidi. L’innocenza femminile è sacra, e se viene messa in discussione, deve essere recuperata. Gli uomini, al contrario, possono permettersi di essere scafati, libertini, persino cinici: il loro destino è la redenzione attraverso l’amore.
In Europa, e soprattutto a Parigi, quel tipo di racconto si fa più sottile, più sfumato. La città stessa è un simbolo: non solo un luogo geografico, ma uno spazio dell’immaginario. Parigi è leggerezza, evasione, seduzione. È la capitale della raffinatezza e del desiderio, il posto perfetto per raccontare una storia d’amore senza giustificazioni morali, senza per forza un matrimonio. Non a caso, sempre più registi americani cominciano a girare lì.
Nel 1955, Billy Wilder è in un momento particolare della sua carriera. Ha appena finito di girare Quando la moglie è in vacanza, un’esplosione di ironia e provocazione, e poco prima aveva diretto Sabrina, il film che lo aveva portato a lavorare con Audrey Hepburn. Due film diversissimi, ma entrambi attraversati da una riflessione sul desiderio – giocoso, borghese, represso o sognante. Ed è proprio in quel periodo che gli riaffiora alla mente quel vecchio film tedesco visto anni prima, tratto da Ariane. Lo aveva colpito per il tono leggero e malinconico, per quel tipo di rapporto sentimentale difficile da etichettare. Forse è arrivato il momento di raccontarlo a modo suo.
A quel punto manca solo la persona giusta con cui scrivere quella storia. La risposta arriva in una sera d’aprile del 1955, durante una cena organizzata dalla Writers Guild. Billy Wilder è lì, seduto tra colleghi, quando iniziano due sketch comici messi in scena per intrattenere il pubblico. Non sa ancora che quelle risate lo porteranno a uno dei legami più importanti della sua carriera.
Durante una serata del Writers Guild, Wilder assiste a due sketch comici. Il primo prende in giro il tormento creativo degli sceneggiatori: due colleghi cercano ossessivamente l’intonazione perfetta per una battuta inutile, lanciandosi in proposte sempre più esagerate, per poi tornare, sconsolati, al punto di partenza. Il secondo è una parodia musicale in stile Guys and Dolls, dove tre agenti cercano di piazzare i loro sceneggiatori come se fossero cavalli da corsa. Un colpo di genio.
Wilder ride, ma soprattutto prende nota: quella scrittura arguta e tagliente è esattamente ciò che stava cercando.
L’autore si chiama I.A.L. Diamond, anche se all’anagrafe era Itek Dommnici, nato a Ungheni, in Romania, e cresciuto a Brooklyn, dove il padre l’aveva portato da emigrato. Genio della matematica, sceglie le iniziali I.A.L. in omaggio all’Interscholastic Algebra League, che aveva vinto due anni di fila. Ma poi cambia strada: alla Columbia University abbandona l’ingegneria per il giornalismo, diventa redattore del Columbia Daily Spectator, scrive sketch estivi nella Borscht Belt, e inizia a coltivare il suo talento per l’umorismo. Passa da uno studio all’altro – Paramount, Universal, Fox – firmando riscritture e soggetti, ma senza mai emergere davvero.
Fino a quella sera. Quando Billy Wilder, uno dei grandi nomi della Paramount, finalmente lo nota. E da lì, tutto cambia.
Quando si incontrano, Billy lo invita subito a lavorare con lui. Gli parla della storia che ha in mente: un uomo maturo, una ragazza giovane, pomeriggi parigini, atmosfera alla Lubitsch ma con più emozione, più ombra. Diamond accetta. E nasce una delle collaborazioni più affiatate della storia del cinema.
Se con Charles Brackett il rapporto era stato brillante ma burrascoso, con Diamond la chimica è diversa: più silenziosa, più rispettosa. Entrambi ebrei dell’Europa centrale, ma con temperamenti opposti. Billy ironico, pungente, nervoso. Iz – così lo chiamano – riservato, pacato, impenetrabile. “Il complimento più alto che potessi ricevere da lui era: "Perché no?", ricorderà Wilder. E Diamond intuisce subito che, sotto il sarcasmo, Billy è un sentimentale. Da quel momento, nei film scritti insieme, l’ironia non serve più solo a graffiare: serve anche a proteggere la tenerezza.
Nel frattempo, Wilder firma un contratto con la Allied Artists, grazie alla mediazione dei fratelli Mirisch. È un accordo raro, quasi romantico: libertà totale. Può scegliere cast, location, stile. Deve solo presentare le idee a Steve Broidy, capo della compagnia.
Così, un giorno, entra nel suo ufficio. “Parla di un uomo maturo e di una donna giovane. Sono a Parigi, e…”
Broidy lo interrompe: “Lascia perdere la trama. Dimmi il titolo.”
“Arianna,” risponde Wilder.
Broidy lo guarda e dice, secco: “È un titolo orribile.”
Poi propone: “Chiamalo Omaha.”
Una città qualunque, senza fascino, senza contesto. Billy resta interdetto. E quando, uscendo dall’ufficio, uno dei Mirisch azzarda che forse “Omaha” non suona così male, esplode: «Mai nella vita!».
Eppure, nonostante il titolo che fa discutere e qualche perplessità in partenza, il progetto prende slancio. Billy ha la sua storia, ha il suo co-sceneggiatore, ha la libertà per girare dove vuole. Ora non resta che una cosa: trovare i volti giusti per dare corpo e voce a quei due personaggi sospesi tra ironia e malinconia. È il momento di pensare al cast.
Billy Wilder ha sempre avuto in mente una sola protagonista. Audrey Hepburn. Nel 1955, quando il progetto è ancora solo un’idea, le scrive un telegramma che dice tutto: “Arianna senza di te è impensabile.”
A quel punto, la Hepburn è già un’icona. Dopo l’Oscar per Vacanze romane e il successo di Sabrina, ha conquistato il pubblico con la sua eleganza naturale e uno stile inconfondibile, capace di unire leggerezza e malinconia. Ma sotto quella grazia perfetta si nasconde anche una giovane donna inquieta, fragile, spesso in lotta con la propria immagine. Proprio in quel periodo, dopo Funny Face, si sente svuotata, stanca, addirittura “brutta”, come confesserà lei stessa.
Eppure, accetta il ruolo prima ancora che ci sia una sceneggiatura. Si fida di Wilder. Tra loro c’è una stima reciproca che va oltre la semplice collaborazione. Lui la rispetta, la ascolta, le costruisce addosso i personaggi. Lei si lascia guidare, ma senza mai spegnere la sua individualità .
Trovare il protagonista maschile, invece, si rivela più difficile. Wilder ha un sogno ricorrente: Cary Grant. Lo vorrebbe per molti suoi film, e ogni volta riceve lo stesso, educato rifiuto. Anche stavolta Grant declina, forse infastidito dalla differenza d’età con la Hepburn. Ma il rifiuto ha un retrogusto curioso: solo due anni prima aveva girato Caccia al ladro con Grace Kelly, coetanea di Audrey, e nel 1963 accetterà senza problemi di recitare proprio accanto a lei in Sciarada. Forse si trattava solo di tempismo, forse di un ruolo che non sentiva nelle sue corde. Wilder non insiste.
Si fa anche il nome di Yul Brynner, e per un attimo si pensa persino di ispirarsi ad Aly Khan, il principe playboy. Ma l’idea svanisce presto: troppo costruita, troppo caricaturale.
Alla fine, la scelta cade su Gary Cooper. Wilder lo conosce bene: aveva già scritto per lui due film, L'ottava moglie di Barbablù per Lubitsch e Colpo di fulmine per Hawks. In entrambi, Cooper interpretava uomini travolti – e in qualche modo trasformati – da figure femminili forti, imprevedibili, vitali. In Barbablù, era un ricco americano che si innamorava di una giovane francese disposta a tutto pur di metterlo alla prova. La somiglianza con Flannagan è più che evidente: stesso mondo, stessi meccanismi sentimentali ribaltati.
E Cooper ha qualcosa di speciale. Non è solo un attore, è un'icona. Ha attraversato decenni di cinema restando immutato nella sua eleganza sobria e nel suo sguardo timido. Ha 55 anni, ma per Wilder questa non è una debolezza: è la chiave. Vuole raccontare un amore fuori tempo massimo, che sorprende proprio quando non lo si aspetta più. E Cooper è perfetto per incarnare quella sorpresa.
Certo, sa bene che l’età sarà un punto sensibile. Il confronto con la giovane Audrey potrebbe risultare troppo sbilanciato. E così, Wilder costruisce tutto un linguaggio visivo attorno a lui: lo riprende spesso in penombra, di profilo, riflesso nei vetri, lo colloca fuori fuoco o alle spalle, quasi fosse un pensiero, un ricordo, una presenza da decifrare. Lo protegge, e insieme lo racconta, con tenerezza.
Cooper, da parte sua, si muove con discrezione. Non cerca mai di “recitare sopra” la sua partner. Accetta quel ruolo silenzioso, sobrio, in cui ogni gesto conta. Non è più il protagonista muscolare degli anni d’oro, ma un uomo che si guarda vivere.
Sul set è riservato, impacciato, poco incline alla coreografia. Wilder scherza, lo chiama Hopalong Nijinsky – metà cowboy, metà ballerino. Ma dietro l’ironia, c’è un rispetto profondo. Perché anche senza dire troppo, Cooper sa esserci. E alla fine, funziona. È proprio la sua vulnerabilità a renderlo credibile.
Per il ruolo del padre di Arianna, Claude Chavasse, Wilder sceglie Maurice Chevalier. È un ritorno importante, quasi simbolico: Chevalier non recitava in un film americano da dieci anni. Per intere generazioni di spettatori, era stato il volto brillante e scanzonato della commedia musicale francese, con il suo sorriso sghembo, il papillon impeccabile, e quella voce inconfondibile che sembrava sempre sul punto di intonare una canzone.
Wilder lo voleva da tempo. Ricorda ancora quando, all’inizio degli anni ’30, Chevalier era stato preso in considerazione per diventare una star della UFA – la principale casa di produzione cinematografica tedesca – ma i produttori dell’epoca lo scartarono per un motivo oggi assurdo: quel piccolo neo sulla guancia sinistra.
Ora i tempi sono cambiati. E con la fine del maccartismo, Billy può finalmente permettersi di offrirgli un ruolo scritto apposta per lui.
In Arianna, Chevalier non canta – o meglio, canta solo con il tono. Il suo personaggio è un investigatore privato, ma è anche molto di più: è il narratore della storia, colui che introduce e chiude il racconto, con quella voce affettuosa e ammiccante, piena di ironia ma mai distante. Ha il passo di un vecchio gentiluomo che accompagna lo spettatore tra le stanze segrete del desiderio.
In realtà , avrebbe voluto avere una scena musicale vera e propria, ma Wilder glielo nega. In compenso, gli dà la libertà di essere se stesso – elegante, brillante, credibile.
C’è solo un dettaglio che Billy fatica a digerire: l’inglese di Chevalier è troppo perfetto. Ha passato troppi anni a perfezionarlo, e adesso suona quasi britannico. “Sii un po’ più francese, per favore,” gli chiede ripetutamente sul set, cercando di recuperare un po’ di quella musicalità spontanea che il tempo ha raffinato.
Per il resto, Chevalier è esattamente ciò che il film richiede. Alcuni attori devono conquistare il pubblico. Lui lo incanta, con un semplice sguardo o una pausa ben calibrata. E anche se fuori dal set non nasce una grande intesa con Audrey Hepburn, sullo schermo i due trovano un equilibrio perfetto: tra di loro passa un affetto paterno leggero, quasi fiabesco, che dà al film la sua dimensione più tenera.
Questo ritorno a Hollywood segna per Chevalier l’inizio di una seconda primavera. Solo un anno dopo, sarà diretto da Vincente Minnelli nel musical Gigi, che gli regalerà una nuova celebrità internazionale. E da lì seguiranno altri successi: Can-Can, Olympia, Il mio amore con Samantha...
Arianna non solo lo riporta sotto i riflettori, ma lo riaccende.
Accanto ai tre protagonisti principali, spicca una presenza curiosa e inconfondibile: John McGiver, al suo debutto in un lungometraggio americano. Attore di formazione classica, proveniente dal teatro e dalla televisione, McGiver aveva già calcato i palcoscenici di Broadway e lavorato in numerosi programmi TV, distinguendosi per la sua dizione impeccabile e l’aria da funzionario eternamente perplesso. Un volto fuori dal tempo, perfetto per incarnare certi tipi umani con una vena surreale.
In Arianna il suo è un ruolo piccolo ma narrativamente essenziale: interpreta Mr. X, il cliente tradito che si rivolge al detective Chavasse, dando il via a tutta la storia. Senza di lui, Ariane non incontrerebbe mai Flannagan.
Wilder lo colloca con precisione chirurgica, come un elemento di architettura narrativa che appare e scompare, ma che sostiene l’intera struttura. In seguito, McGiver diventerà uno dei caratteristi più riconoscibili del cinema americano, specializzandosi in ruoli comici e grotteschi, sempre con quell’aria da uomo qualunque spaesato ma memorabile. È il commesso della gioielleria in Colazione da Tiffany (1961), il funzionario impacciato in Lo sport preferito dall’uomo (1964) accanto a Rock Hudson, e uno degli eccentrici protagonisti di Ladri sprint (1967), al fianco di Dick Van Dyke.
Infine, in una comparsa silenziosa ma significativa, compare anche Audrey Wilder, moglie del regista. È la donna mora sorpresa nella stanza di Flannagan, in una delle prime scene. Billy le affida questo piccolo ruolo come un gesto d’affetto, ma la tiene sempre in ombra.
Le riprese di Arianna cominciano il 22 ottobre 1956 e si concludono nel dicembre dello stesso anno, interamente tra Parigi e gli Studios de Boulogne. In apparenza, è un set elegante e ben organizzato, ma tra ciak e camere d’hotel si alternano insicurezze, ritmi forsennati e trovate geniali per risolvere imprevisti e limiti tecnici.
Audrey Hepburn, per esempio, si presenta sul set in uno dei momenti più fragili della sua carriera. Reduce da Funny Face, ha perso molto peso e si sente “svuotata”. “Ero convinta di essere brutta,” confesserà poi. È inquieta, ipercritica verso la propria immagine: si ossessiona per i dettagli, come la forma delle narici o l’angolazione degli scatti pubblicitari. Vuole approvare ogni foto, rifiuta di posare, arriva persino a chiedere di rigirare alcune scene. La produzione, pur di tranquillizzarla, finge di accettare, promettendo nuove riprese “alla fine”. Naturalmente non succederanno mai. A riportarle un po’ di leggerezza ci pensa Mr. Famous, un minuscolo cane yorkshire che le regala il marito Mel Ferrer. Lo adora, lo coccola, lo veste con collari preziosi e lo nutre con tagli di carne selezionatissimi. “Mi ha aiutata a dimenticare la paura di recitare accanto a Gary Cooper,” dirà .
Cooper, dal canto suo, è più fragile di quanto si pensi. È timido, riservato, malinconico, e spesso affaticato. Durante la ripresa della famosa scena della pantofola al Ritz, si addormenta più volte sul set. Wilder, paziente, scherza: “Qualcuno svegli Coop.” Quando finalmente ottengono la ripresa buona, Billy si lascia andare: si accascia su una sedia, alza le mani e ride di pura felicità . “Sembrava un padre innamorato del proprio neonato,” racconterà un membro della troupe.
Maurice Chevalier, al contrario, è instancabile. Ha 68 anni, ma tra una scena e l’altra trova la forza di esibirsi tutte le sere al teatro Alhambra. È puntuale, preciso, un professionista impeccabile. Ma non ama particolarmente la socialità : ogni venerdì la troupe organizza una piccola festa sul set, e lui riesce quasi sempre a svignarsela con eleganza, lamentando mal di testa o appuntamenti dal dentista.
Costumi
Anche in Arianna, come già in Sabrina, Hubert de Givenchy firma gli abiti di Audrey Hepburn senza essere accreditato, e anche stavolta i meriti finiranno su altri nomi. Per questo film, Givenchy crea undici outfit perfetti, ognuno capace di raccontare un passaggio nel percorso di Arianna, una ragazza che si affaccia timidamente al mondo dell’amore.
C’è però un dettaglio meno noto che rende ancora più interessante la lettura visiva del film. Poco prima di accettare Arianna, Audrey Hepburn era stata considerata per il ruolo della protagonista in Bonjour Tristesse (1958), tratto dal romanzo di Françoise Sagan. Rifiutò, ritenendo il personaggio troppo ambiguo. La parte andò a Jean Seberg, ma i costumi furono comunque affidati a Givenchy.
Il risultato? Due ritratti femminili opposti – Arianna e Cécile – raccontati anche attraverso abiti simili ma con tagli e dettagli diametralmente diversi.
La prima volta che vediamo Audrey è in casa, con una vestaglia dalla stampa geometrica che ricorda le maioliche francesi. Stretta in vita da un cordone da tenda, è un capo insolito e domestico, che definisce subito il tono del personaggio: curioso, riservato e profondamente originale.
Il primo momento di trasformazione arriva con un little black dress dal taglio impeccabile: scollatura a barca e gonna ampia. È un look sobrio e perfetto, tanto iconico da essere poi ripreso, in versione più audace, da Jean Seberg in Bonjour Tristesse, con scollatura halter e schiena scoperta. Qui, invece, l’abito resta fedele a un’eleganza composta e quasi intimidita.
Il vertice dell’eleganza è l’abito da sera per la scena dell’opera: un ballgown bianco in tulle point d’esprit, ricamato con paillettes e rifinito con un fiocco celeste. È il vestito che Audrey regalerà poi alla sua amica Tanja Star-Busmann. Negli anni, l’abito venne modificato, ma nel 2009 fu restaurato da Kerry Taylor, riportato al suo splendore originale e venduto all’asta per 52.500 sterline.
Il look più informale e moderno è quello del picnic in barca: pantaloni capri a righe, camicia bianca, cardigan rosso e nastri abbinati nei codini dei capelli. Audrey è l’incarnazione perfetta della Parigi borghese anni ’50: sobrietà e leggerezza fuse in un’eleganza mai ostentata.
Un altro abito bianco a fiori, stavolta più vaporoso e romantico, entra in scena nella sequenza in cui Arianna ascolta i suoi sentimenti prendere forma. È lo stesso motivo floreale usato anche in Bonjour Tristesse, dove però Jean Seberg lo indossa con una scollatura più profonda.
Location
Parigi non è solo la location del film, è uno dei protagonisti. Billy Wilder la sceglie in primis per la bellezza dei suoi scorci, ma soprattutto è convinto che solo lì si possa raccontare una storia d’amore con la giusta dose di eleganza, ironia e ambiguità . Il film si apre con una sorta di tour sentimentale attraverso i luoghi più iconici della città : il Pont Neuf e la riva sinistra della Senna, la Conciergerie, i giardini delle Tuileries con il Louvre sullo sfondo, uno dei viali che si snoda da l’Arc de Triomphe, la fontana di Place de la Concorde, la Cattedrale di Notre-Dame, la Tour Eiffel. Ogni scena suggerisce una diversa declinazione dell’amore: giovane, maturo, diurno, notturno, appassionato, giocoso… fino ad arrivare a un’immagine irresistibile – due barboncini che si baciano sotto il monumento più fotografato del mondo.
È a Place Vendôme, però, che entriamo nel cuore della storia: su quella piazza perfetta, dominata dalla colonna napoleonica, il detective Claude Chavasse (Maurice Chevalier) spia i movimenti di Frank Flannagan. La sua postazione è in cima alla colonna, da cui fotografa l’amante del playboy. Accanto alla piazza, c’è il celebre Hôtel Ritz, dimora di Flannagan. Gli esterni sono autentici, mentre gli interni vengono ricostruiti agli Studios de Boulogne. Il Ritz diventa il teatro degli appuntamenti amorosi, delle bugie e dei corteggiamenti, sempre accompagnati dalla musica del quartetto zigano.
Una delle sequenze più ambiziose si svolge all’Opéra Garnier, dove Arianna e Flannagan si incontrano per la prima volta in un contesto mondano. Ma la scena non è girata realmente all’interno dell’opera: per motivi logistici, Wilder e Alexandre Trauner ricostruiscono l’intero scenario in studio. Con un lampadario in miniatura, sagome ritagliate di spettatori incollate su sfondi dipinti e un movimento fluido della macchina da presa, Trauner crea un’illusione perfetta. Il suo stile, erede del realismo poetico francese, riesce a trasformare i limiti tecnici in un colpo di genio visivo.

La casa di Arianna e del padre, il detective, si trova invece in Rue Malebranche 17, nel Quartiere Latino. Una strada discreta, piena di fascino, scelta anche da Woody Allen per Midnight in Paris. L’appartamento è arredato con gusto e personalità , ricco di oggetti e carte, in perfetto equilibrio tra disordine affettuoso e intimità borghese.
Per la scena del picnic, ambientata fuori città , Wilder sceglie i giardini del Château de Vitry, vicino a Gambais. Qui il tono si fa più sensuale, con un’atmosfera sospesa che richiama direttamente Le Déjeuner sur l’herbe di Édouard Manet. È una citazione visiva elegante, che mescola arte e cinema. Ma la magia sullo schermo nasconde qualche difficoltà dietro le quinte: zanzare, maltempo e i continui rumori degli aerei in partenza dall’aeroporto di Orly costringono la troupe a molte riprese aggiuntive.
Il film si conclude alla Gare de Lyon, la grande stazione ferroviaria di Parigi.
Le riprese però si svolgono in un momento di grande tensione: nell’ottobre del 1956, esplode la rivolta ungherese e scoppia la crisi di Suez. A Parigi ci sono proteste, bombe carta, tensioni internazionali. Billy Wilder, emigrato lui stesso dall’Europa centrale, ne è profondamente turbato. Legge ossessivamente i giornali, discute con la troupe, e tra una scena e l’altra cerca di capire dove sta andando il mondo. La produzione, temendo un’escalation, prenota posti aerei quotidiani per tutta la troupe, pronta a lasciare la città in caso di emergenza. Alla fine non sarà necessario, ma l’atmosfera resta tesa.
Colonna sonora
In Arianna, la musica è molto più di un accompagnamento: è una voce narrativa che dà ritmo, commenta le scene e sottolinea i cambiamenti emotivi. Billy Wilder e il compositore Matty Malneck costruiscono una partitura coerente e raffinata, dove ogni brano ha un preciso significato drammatico.
Una scaletta musicale costruita come un racconto
Il film si apre con il detective Claude Chavasse (Maurice Chevalier) che illustra, con tono ironico, la sequenza degli appuntamenti amorosi di Frank Flannagan. È qui che entra in scena il quartetto zingaro, e con loro, la musica: il primo brano è “Hot Paprika”, composto da Matty Malneck, vivace e caricaturale, perfetto per rendere visivamente e sonoramente la routine elegante e ripetitiva del protagonista.
Al termine di quella sequenza, quando il quartetto conclude il suo “servizio”, i musicisti suonano “Fascination”, un valzer lento e seducente. È il primo accenno di qualcosa di diverso: la giornata di Flannagan si chiude, e con essa, quella sequenza perfettamente coreografata.
Mentre escono dalla suite, uno dei membri del gruppo appende sulla maniglia della porta il cartello “Do Not Disturb”.
Composta nel 1904 da Fermo Dante Marchetti, Fascination era stata riscoperta negli anni ’30, ma è qui che trova nuova vita, diventando una presenza ricorrente del film.
Con l’arrivo di Arianna, la musica comincia a cambiare tono. A emergere, in forma strumentale e mai invadente, è il motivo “Love in the afternoon”, sempre di Matty Malneck, con testo successivamente aggiunto da Johnny Mercer (ma non presente nel film).
Questo tema accompagna i momenti più intimi e sospesi tra i due protagonisti, spesso durante le transizioni narrative o nelle scene di maggiore complicità silenziosa.
Ritorna con maggiore enfasi nel climax finale, quando Flannagan decide di rompere la propria routine e seguire Ariane. È a quel punto che il brano lascia il passo a “Fascination”, che riappare — ma questo appartiene a un altro momento della storia.
Tra le canzoni più famose del film c’è anche “C’est si bon”, composta da Henri Betti. La sua presenza nel film nasce da una piccola storia personale: Chevalier e Betti, amici da anni, si erano allontanati per un vecchio prestito non restituito. Durante le riprese a Parigi, si ritrovano e si riappacificano. Chevalier propone a Wilder di inserire la canzone dell’amico, e il regista accetta. Il brano viene così arrangiato e incluso in una delle sequenze del film, contribuendo a rilanciarne la popolarità a livello internazionale. I diritti della canzone porteranno a Betti una seconda ondata di successo.
In patria, il film riceve recensioni miste, e la critica si sofferma quasi ossessivamente su un unico punto: la differenza d’età tra Gary Cooper e Audrey Hepburn. Nonostante la sceneggiatura costruisca proprio su questo scarto una parte importante della dinamica tra i personaggi, molti ritengono Cooper troppo anziano per interpretare il ruolo del playboy. Lo stesso attore ne rimane amareggiato: convinto di aver dato una delle sue prove più sensibili e misurate, si sente tradito da una critica concentrata più sull’aspetto che sulla sostanza.
Wilder, con la sua consueta ironia, commenta così: “È stato un insuccesso. Perché? Perché ho preso Coop proprio nell’anno in cui ha improvvisamente cominciato a sembrare vecchio.”
In realtà il film non è un flop completo. Se negli Stati Uniti incassa meno del previsto, in Europa ottiene una ricezione più favorevole, complice forse la familiarità con il tono sofisticato e malinconico della storia. Tuttavia, a compromettere i risultati economici contribuisce anche la fragilità della casa produttrice: la Allied Artists, che per finanziare il film cede anticipatamente i diritti di distribuzione internazionale, rinunciando così a una parte dei profitti futuri.
Nel libro di memorie “I Thought We Were Making Movies, Not History”, Walter Mirisch, produttore esecutivo del film, racconta con lucidità e un filo di rammarico quella stagione:
“Amavo profondamente quel film e non ho mai capito perché non abbia avuto un’accoglienza migliore. Wilder ne era fiero, come lo eravamo tutti noi. Ma, a quanto pare, l’America non era pronta per una favola romantica ambientata a Parigi con un protagonista maturo.”
A pesare sull’accoglienza iniziale c’è anche il clima censorio dell’epoca. La National Legion of Decency minaccia infatti di classificare il film con una “C” di “Condannato”, giudicando moralmente discutibile la relazione tra i protagonisti.
Per evitare la censura, Wilder aggiunge in post-produzione una voce fuori campo di Maurice Chevalier, che rassicura il pubblico: Ariane e Flannagan si sono sposati, e ora scontano “l’ergastolo a New York”. Un colpo di classe che strappa un sorriso, ma che testimonia quanto fosse difficile, all’epoca, raccontare un amore adulto senza giustificarlo con un lieto fine istituzionale.
Arianna non ottiene grandi riconoscimenti ufficiali al momento della sua uscita, né riesce a entrare nelle shortlist degli Oscar del 1957. Una delusione per Wilder, che era reduce dal successo di Sabrina e da anni di apprezzamenti continui da parte dell’Academy. Tuttavia, la sceneggiatura scritta a quattro mani con I.A.L. Diamond — alla loro prima collaborazione — viene premiata con il Writers Guild of America Award come Miglior sceneggiatura comica americana. È un segnale importante: la coppia di autori ha appena cominciato, e quel riconoscimento sancisce una nuova fase nella carriera di Wilder.
Il regista riceve anche una nomination dalla Directors Guild of America, un ulteriore attestato di stima da parte dei colleghi. Nonostante ciò, il film non riesce a imporsi come successo commerciale. La distribuzione è curata dalla Allied Artists, una compagnia più piccola rispetto ai grandi studios, che fatica a sostenere la promozione di un film così sofisticato. Nel 1961 il film viene riedito con il titolo Fascination, nel tentativo di rilanciarlo presso il pubblico americano, ma il risultato non cambia.
Eppure, nel tempo, il film guadagnerà il suo posto tra le opere più raffinate del regista.
Siamo arrivati al termine di questo nostro viaggio dietro le quinte.
Arianna è quell’opera discreta, piena di ironia e grazia, che accompagna lo spettatore con il passo leggero delle storie raccontate senza fretta. Non cerca mai l’effetto, e proprio per questo riesce a lasciare un segno profondo.
In ogni inquadratura si sente la mano di Billy Wilder, regista che conosce l’equilibrio tra tenerezza e malinconia, tra gioco e sincerità . Audrey Hepburn, in uno dei ruoli più delicati della sua carriera, incarna con naturalezza quel momento in cui si passa dalla curiosità al sentimento, dalla finzione alla verità .
Insomma, Arianna è un film che sa stare in silenzio quando serve, che racconta l’amore attraverso dettagli, sguardi, mezze frasi. Un film che, anche a distanza di decenni, continua a parlarci con garbo. E che merita, ancora oggi, di essere guardato con attenzione e con cuore aperto.
Chavasse: La mia professione è come quella del medico, devo essere pronto giorno e notte, un buon dottore non si riposa, finché il paziente non Lascia il letto.
Arianna: Che ne pensi di quel benedettino che lasciò l'ordine per amore di una vedova?
Chavasse: Lei lo sposò solo perché voleva le ricette segrete dei liquori.
Chavasse: Pepsi Cola...
Mr. X: "La pausa che ristora"?
Chavasse: No, quella è l'altra. "Pepsi Cola chi la prova si consola".
Arianna: Polizia, devo denunciare un delitto.
Agente: Di che si tratta?
Arianna: Ci sono un uomo e una donna, stanza 14, hotel Ritz. La donna è sposata. Il marito di questa donna ha un'arma.
Agente: Capisco, non ha il porto d'armi.
Arianna: Ma no, alle 10 lui irromperà nella stanza e sparerà .
Non si agiti, non sono ancora le 10. Se alle 10 davvero irrompe nella stanza e spara e non fa cilecca, ci richiami.
Arianna: Ma sarà troppo tardi! Deve mandare subito qualcuno.
Agente: Ci sono 7.000 alberghi a Parigi, 220.000 stanze d'albergo e in una notte così più o meno in 40.000 di queste stanze c'è una situazione simile. Se dovessimo assegnare un poliziotto a ognuna di queste situazioni... Non riesco neanche a pensarci, non basterebbe la polizia, ci vorrebbero i Vigili del Fuoco, la polizia di frontiera e anche i Boy Scout. Non vorremmo implicare dei ragazzi in pantaloncini in queste situazioni.
Chavasse: Se fossi un ricco maraja, ti ricoprirei di diamanti. Se fossi un ciabattino, ti risuolerei le scarpe, ma essendo un detective, non posso offrirti che delle informazioni riservate.
Mr. Flanagan: Meglio fare come se ci trovasse tra un aereo e l'altro.
Arianna: Molto saggio.
Mr. Flanagan: "Colui che ama se ne va, domani pur amar potrà ".
Mr. Flanagan: Chi gliel'ha dato?
Arianna: Un amico molto generoso e molto ricco, export-import.
Mr. Flanagan: Export-import... Cosa esporta e cosa importa?
Arianna: Beh, lui esporta profumi e importa banane, è un affare! Per una bottiglia di profumo, gli danno dodici banane.
Mr. Flanagan: Dodici banane per una bo... È un furto.
Arianna: Ma la bottiglia di profumo è minuscola, le banane enormi.
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- venerdì, aprile 11, 2025
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