L’iconico Barbizon, l’hotel per sole donne che ha ospitato Grace Kelly e altre star

venerdì, aprile 25, 2025

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Qualche mese fa ho scritto un articolo sul Dakota Building, uno degli edifici più iconici di New York, in cui hanno vissuto star del calibro di Lauren Bacall, Judy Holliday e Leonard Bernstein (potete recuperarlo qui). Poco dopo la pubblicazione, alcune lettrici mi hanno scritto: “E il Barbizon? Ci ha vissuto Grace Kelly, dovresti raccontarne la storia!”
Così è cominciata la mia esplorazione. Com’era possibile che non lo conoscessi? Pensavo di trovare la storia di un edificio elegante e poco più, e invece ho scoperto un universo. Come primo passo ho letto "The Barbizon" di Paulina Bren, un libro che ha avuto il grande merito di accendere la mia curiosità. L’autrice si concentra soprattutto sugli aspetti sociologici: il ruolo dell’hotel nella trasformazione della donna americana nel Novecento, tra aspettative familiari e desideri di emancipazione. Una prospettiva illuminante, certo. Ma non mi bastava.

Perché quello che mi affascina, da sempre, sono le storie che abitano i muri. Le vite delle persone che hanno attraversato quei corridoi, l’evoluzione architettonica degli edifici, le trasformazioni dello spazio in rapporto al tempo. E allora ho iniziato a scavare in libri di architettura, articoli, archivi. E più andavo avanti, più il Barbizon diventava un racconto da scrivere.
Qui hanno abitato attrici come Grace Kelly, Tippi Hedren, Ali MacGraw. Ma in questo palazzo all’angolo tra Lexington Avenue e la 63ª strada ha trascorso gli ultimi anni della sua vita anche una figura leggendaria: l’inaffondabile Molly Brown, sopravvissuta al naufragio del Titanic, interpretata da Debbie Reynolds in Voglio essere amata in un letto d’ottone e da Kathy Bates nel Titanic di James Cameron.

Il Barbizon non è stato solo un hotel. È stato un teatro di ambizioni, un rifugio, una bolla sospesa in cui centinaia di ragazze – modelle, attrici, pianiste, dattilografe – si sono ritrovate a New York con una valigia in mano e un sogno in testa.
E questa è la loro storia. Ma anche quella di un edificio unico, che ha cambiato volto – e in parte identità – nel corso dei decenni.

Un posto tutto loro: l’alba dei residence femminili

Prima del Barbizon, c’è stato qualcos’altro. Il Martha Washington Hotel, che ha aperto le porte nel 1903 ed è stato il primo hotel residenziale progettato esclusivamente per donne. Non ha l’eleganza del Barbizon, né il suo respiro artistico, ma ha rappresentato una rivoluzione. Un edificio tozzo, su dodici piani, situato tra la 29ª e la 30ª strada, che offre alle donne un tetto sopra la testa senza il sospetto morale che, a inizio Novecento, aleggia su ogni donna sola in città.
Il Martha Washington risponde a un bisogno reale: centinaia di donne si stanno trasferendo a New York per lavorare — come dattilografe, impiegate, insegnanti — ma la città non è ancora pronta ad accoglierle. Le regole sono ferree: nessuna può affittare una stanza in un albergo se arriva dopo le sei di sera, a meno che non abbia con sé un baule pesante per dimostrare che non è una prostituta. Non esistono hotel “rispettabili” per donne che vivono da sole. Il Martha Washington, invece, offre proprio questo: un rifugio sobrio, sorvegliato, con camere semplici e un’atmosfera severa, ma rispettabile. Quando l’attrice Veronica Lake, ormai divorziata e lontana dai fasti di Hollywood, cercherà lavoro come cameriera a Manhattan, troverá rifugio proprio al Martha Washington Hotel: uno dei pochi luoghi in città dove una donna sola poteva ancora permettersi una stanza senza dover spiegare troppo.

Durante la Prima guerra mondiale, questo modello si diffonde. Le donne entrano nel mondo del lavoro in massa, e la necessità di avere luoghi protetti e dignitosi in cui abitare diventa urgente. Nascono altri residence femminili come il Rutledge Hotel e l’Allerton House

Il vero salto avviene negli anni ’20, quando New York comincia a guardare verso l’alto. Grattacieli e torri residenziali stanno trasformando l’aspetto della Lexington Avenue, soprattutto nella porzione settentrionale, un tempo più periferica. È una città in evoluzione, dove il bisogno di spazi nuovi — funzionali, eleganti, verticali — correva di pari passo con i cambiamenti sociali.
Tra questi, il più evidente: il numero sempre crescente di giovani donne che arrivano da ogni parte d’America, laureate o diplomate, in cerca di opportunità nel mondo dell’arte, del giornalismo, della moda, del teatro. Donne sole in una città immensa. Donne per cui non esiste ancora un luogo adatto: né pensioni spartane, né alberghi pensati per clienti maschili.
È in questo contesto che nasce l’idea del Barbizon. Il lotto su cui verrà costruito ospitava, fino al 1926, il tempio Rodeph Sholom, simbolo di una New York ottocentesca che stava lasciando spazio a una modernità più dinamica. A rilevarlo è la Allerton House Company, una catena di residenze con una certa esperienza nell’accoglienza femminile. Ma questa volta, l’ambizione è diversa. Non solo un luogo sicuro. Non solo camere. Ma un nuovo modo di abitare la città.

Il nome scelto non è casuale. “Barbizon” rimanda a una piccola cittadina francese alle porte della foresta di Fontainebleau, dove, nella prima metà dell’Ottocento, un gruppo di pittori si era ritirato in cerca di autenticità, luce naturale, contatto diretto con la realtà. La Scuola di Barbizon, come verrà chiamata, anticipa l’impressionismo ed esalta una bellezza silenziosa, libera dai canoni accademici. Una scelta raffinata, quasi simbolica: anche le donne del Barbizon, in fondo, arrivano lì per cercare qualcosa di nuovo, di vero. E per costruire, nella grande metropoli americana, una forma di esistenza più personale, più autonoma. 


A guidare il progetto è William H. Silk. Per l’occasione, affida la realizzazione a due architetti specializzati in strutture alberghiere: Everett Murgatroyd e Palmer Ogden. La loro idea è quella di costruire un edificio in grado di trasmettere, già dall’esterno, una sensazione di solidità e bellezza: un palazzo autorevole, ma non intimidatorio; decorato, ma senza eccessi; moderno, ma con richiami storici. Un’architettura che avrebbe dovuto riflettere l’identità delle donne che vi avrebbero abitato: determinate, istruite, desiderose di eleganza.
Il Barbizon apre i battenti alla fine del 1927. E appena lo si guarda dalla strada, si capisce che non è un edificio qualunque. 


L'architettura 

L’esterno del Barbizon non si impone con l’arroganza del grattacielo moderno, ma conquista con l’eleganza di un castello urbano. Non è un caso: il progetto di Murgatroyd & Ogden mescola influenze del Rinascimento italiano, del gotico revival e persino echi islamici, per evocare una femminilità solida, protetta, ma mai priva di grazia. La facciata — interamente rivestita in mattoni color salmone — si sviluppa su 23 piani articolati con sapienza scenografica tra simmetria e movimento.
Visivamente, l’edificio è diviso in tre sezioni orizzontali: una base piena e terragna di tre livelli, un corpo centrale di quindici piani che cresce compatto verso l’alto, e una torre di cinque piani arretrati, che emerge come una presenza più ariosa e contemplativa. È proprio questa struttura ritmica — base, shaft e torre — a regalare al Barbizon la sua silhouette inconfondibile: slanciata, ma non eccessiva; monumentale, ma domestica.


Alla base, lungo la 63ª Strada e Lexington Avenue, si sviluppa un elegante zoccolo in pietra calcarea. Le aperture sono scandite da arcate e pilastri decorativi — paraste — con capitelli a foglia d’acanto, chiaro rimando al classicismo. Nei punti angolari, i progettisti hanno inserito padiglioni sporgenti, che slanciano i volumi e costruiscono un perimetro movimentato, più simile a una cittadella verticale che a un blocco compatto.
Ma è osservando le superfici che si percepisce l’ambizione architettonica. La facciata è incisa da intagli in muratura che imitano nicchie e archetti ciechi, disegnando una pelle architettonica viva, tridimensionale, come se l’edificio respirasse grazie al suo profilo spezzato da sporgenze e rientranze. Queste rientranze non hanno una funzione abitativa vera e propria, ma creano giochi di ombre mutevoli a seconda delle ore del giorno e rendono il palazzo sorprendentemente dinamico per un’opera così massiccia.

I setback — gli arretramenti progressivi imposti dalla legge urbanistica newyorkese per garantire aria e luce — sono stati trattati come occasioni formali: diventano terrazze, balconate, logge. E proprio qui, tra le cornici murarie, si inseriscono con discrezione alcune ringhiere in ferro battuto, spesso in corrispondenza delle grandi finestre o delle terrazze dei piani più alti. Non sono pensate per l’affaccio quanto per accompagnare il disegno verticale della facciata, aggiungendo un accento decorativo dal gusto europeo.
Sui livelli superiori, soprattutto tra il 19º e il 22º piano, compaiono archi a doppia altezza, finestre ogivali incorniciate in mattoni sagomati, e dormienti (quelle finestre aggettanti sul tetto) che culminano in frontoni decorati con elementi a forma di quadrifoglio. Gli architetti sembrano aver giocato con il concetto stesso di verticalità, accentuandola con ogni mezzo possibile — mensole scolpite, bande marcapiano, nicchie, cornici, e persino parapetti merlati al coronamento del 22º piano.
Dal marciapiede, l’effetto è insieme solenne e poetico. Il Barbizon racconta una storia in verticale, come una colonna vertebrale fatta di aspirazioni e ambizioni. Ogni rientranza è un respiro. Ogni balcone un momento d’attesa. Ogni finestra un potenziale inizio.
 

L'interno

Entrare nel Barbizon, negli anni della sua fondazione, era come varcare la soglia di un universo parallelo: tutto era progettato per offrire protezione, ispirazione e decoro. L'ingresso principale, sulla 63ª Strada, introduceva a una lobby a doppia altezza, sontuosa ma sobria, ispirata alle dimore rinascimentali dell’Italia settentrionale. Qui si percepiva subito la doppia anima del Barbizon: un edificio concepito per donne moderne, ma immerso in una grammatica architettonica di memoria antica.
La lobby era avvolta da pannellature in legno, incorniciata superiormente da un ballatoio decorato con colonne basse e ringhiere che circondavano lo spazio come un palcoscenico sopraelevato. Questo mezzanino, pensato per ospitare club culturali, letture pubbliche e incontri artistici, era anche un luogo di osservazione privilegiato: le residenti potevano scrutare discretamente chi entrava dalla reception, mentre i visitatori maschi — padri, medici o elettricisti — erano rigidamente confinati alla zona terra, salvo rare eccezioni con lasciapassare.


Dietro la lobby si apriva la sala da concerto, rivestita di legno, con un organo a canne di 600 canne e una vetrata decorata raffigurante proprio l’edificio del Barbizon. La sua funzione non era solo estetica: accoglieva spettacoli, recital, proiezioni e momenti comunitari, in cui le residenti, molte delle quali attrici, cantanti o musiciste in formazione, potevano esibirsi davanti a un pubblico selezionato.


Altri ambienti comuni erano disposti con logica quasi monastica. C’era una biblioteca privata con oltre tremila volumi, una palestra, una piscina interna rivestita in piastrelle ceramiche — lunga diciotto metri — e persino un bagno turco. 


Tutti spazi pensati non solo per il benessere, ma per una quotidianità colta e disciplinata. Ai piani superiori, il 19º ospitava una sala prove a doppia altezza, mentre al 18º si trovavano le club rooms dedicate alle ex studentesse dei college più prestigiosi, con salotti, sale da pranzo e terrazze panoramiche. Le sedi della Junior League of America occupavano i livelli dal 20º al 22º, con arredi sobrii ma raffinati, carte da parati in toni vivaci e camini decorativi. 

Le camere private, se così si potevano definire, erano piccole ma ordinate: poco più di nove metri quadrati. Arredate in stile “francese moderno”, erano dotate di un letto singolo, un piccolo scrittoio, una cassettiera, una lampada da comodino e una poltroncina. In tutte le stanze era presente la radio.


A rendere il Barbizon un crocevia di opportunità non sono solo le ambizioni individuali, ma anche le istituzioni che lo hanno scelto come sede o punto d’appoggio. La Katharine Gibbs Secretarial School, tra le più prestigiose scuole di segretariato degli Stati Uniti, ha riservato due interi piani dell’hotel alle sue studentesse, con chaperon, orari fissi e regole ferree. Nel frattempo, la nascente Ford Modeling Agency ha iniziato a sistemare lì molte delle sue modelle, consapevole che nessun altro luogo offrisse quella combinazione di sicurezza, eleganza e strategica vicinanza agli studi fotografici e alle redazioni di moda. Il Barbizon è stato molto più di una residenza: un piccolo ecosistema al femminile, dove sogni, ambizioni e disciplina si sono incontrati in equilibrio perfetto. 

La vita quotidiana dietro le porte del Barbizon

Ogni giorno, al Barbizon, si muove una coreografia silenziosa fatta di regole, piccoli riti e improvvise alleanze. Le ragazze hanno dovuto registrarsi ogni volta che entravano o uscivano, rientrare entro le 22, mantenere un aspetto sempre curato. Le ispezioni del personale non sono rare, e chi è stata sorpresa con una piastra elettrica nascosta sotto il letto si è vista sequestrare l’oggetto e convocare per un colloquio con la temibile Mae Sibley, la vice direttrice che controlla ogni dettaglio con fermezza quasi militare.
Gli uomini non sono ammessi oltre la lobby, a eccezione di medici, elettricisti e idraulici, autorizzati solo in caso di necessità. Se un visitatore desidera accedere al diciottesimo piano, dove si trovano le terrazze e alcuni club privati, deve essere accompagnato da una residente e ottenere un lasciapassare.
Ma sotto questo strato di disciplina ferrea, si muove una rete vivace di strategie quotidiane. Molte ragazze hanno aspettato le nove di sera sperando in un invito a cena, così da evitare la spesa del pasto. Lo shopping da Bloomingdale, pur essendo a due passi, è spesso sostituito da scambi tra amiche e piccole vendite informali. Quando una modella lascia la struttura, spesso per sposarsi, capita che organizzi una sorta di swap party nella propria stanza: una svendita improvvisata dove le altre residenti si passano abiti firmati acquistati tramite le agenzie a prezzo scontato, rivenduti poi per pochi dollari. Non è baratto vero e proprio, ma un’economia interna fatta di solidarietà, intuito e buon gusto.
Anche il piano terra contribuisce a questa autosufficienza raffinata. I negozi all’angolo con Lexington Avenue — una lavanderia, un parrucchiere, una farmacia, un negozio di calze, una modisteria e una libreria Doubleday — sono accessibili anche dall’interno dell’hotel, attraverso un corridoio che permette di muoversi senza mai uscire in strada. Ogni dettaglio dell’edificio è pensato per accogliere e proteggere, ma anche per far crescere.
Tra chi studia dizione nella propria stanza, chi sogna il palcoscenico e chi prova un’aria d’opera nella sala insonorizzata del diciannovesimo piano, il Barbizon è stato — ed è — un luogo sospeso: un microcosmo femminile in equilibrio tra ambizione e ritegno, dove ogni gesto quotidiano sembra parte di un grande rito d’iniziazione alla vita adulta.



Ma anche i sogni più solidi possono incrinarsi. Mentre il Barbizon svetta elegante all’angolo tra la 63ª e Lexington, con le sue torrette, le sue logge, i suoi saloni scolpiti nella pietra e nella luce, il mondo attorno cambia. La Grande Depressione travolge tutto: industrie, banche, palazzi e ambizioni. E nel 1931, appena tre anni dopo l’apertura, anche il Barbizon vacilla.
La Barbizon Corporation, presieduta da William H. Silk, si trova inadempiente. I costi sostenuti per l’edificio erano stati ingenti – oltre quattro milioni di dollari – ma il crollo dell’economia riduce le entrate e azzera gli investimenti. La Chase National Bank prende possesso dell’immobile, che finisce all’asta. Il prezzo di partenza racconta già tutto: 460.000 dollari, una cifra drammaticamente bassa. Sembra la fine di un esperimento troppo audace per sopravvivere.
E invece no. A farsi avanti è Lawrence B. Elliman, agente immobiliare e tra gli investitori del Martha Washington, il primo residence femminile della città. Lo acquista e crea una nuova entità giuridica per amministrarlo, convinto che il Barbizon abbia ancora un futuro. E ha ragione. Perché la sua storia è appena cominciata.

Residenti celebri
L’inaffondabile Molly Brown

A popolare quelle stanze, fin dai primi anni, arrivano donne con ambizioni, sogni e storie straordinarie. Tra loro c’è anche una figura dal nome leggendario: Molly Brown, “l’inaffondabile”. Un soprannome che porta con sé un’aura di mistero, quasi mitologica. L’origine di quel nome? Te la racconto tra pochissimo. Ma prima lascia che ti dica chi era davvero questa donna, un simbolo di coraggio, determinazione e modernità.
Nata nel Missouri nel 1867, cresciuta in una famiglia di umili origini, ha costruito la sua vita sfidando tutto e tutti. Si è trasferita giovane a Leadville, in Colorado, dove ha sposato un uomo che — per un colpo di fortuna mineraria — è diventato milionario. Ma Molly non si è mai accontentata del ruolo di moglie ricca: ha viaggiato, studiato, si è impegnata nel volontariato e nella politica, ha sostenuto i diritti delle donne e dei lavoratori. E nel 1912, quando si è imbarcata sul Titanic per tornare in America dopo un viaggio in Egitto con la figlia, non sapeva ancora che la sua vita sarebbe cambiata per sempre.
Quella notte, mentre la nave affondava nell’Atlantico, Molly ha fatto qualcosa che pochi avrebbero avuto il coraggio di fare. Ha preso in mano la situazione, ha incitato le altre donne a remare, ha dato via i suoi abiti più pesanti per proteggere chi tremava di freddo. Non si è mai voltata indietro. Quando sono arrivati i soccorsi, non era una sopravvissuta qualsiasi: era una comandante improvvisata, una donna che ha trasformato la paura in azione. Da allora, tutti l’hanno chiamata “l’inaffondabile”.
Negli anni successivi ha continuato a reinventarsi. Si è trasferita a Parigi per studiare recitazione, ispirata da Sarah Bernhardt. Ha frequentato salotti culturali, teatri, ambasciate. Ha vissuto come ha sempre voluto: in movimento, con passione. E quando ha scelto di stabilirsi a New York, ha trovato nel Barbizon il luogo ideale. Non voleva un semplice hotel: cercava un ambiente che parlasse la sua lingua, che sapesse accogliere donne come lei — curiose, determinate, fuori dagli schemi.
Ha preso una stanza con un lettino singolo, una scrivania, una sedia. Poco spazio, ma tante possibilità. Le pareti erano insonorizzate: Molly ha potuto cantare, provare le sue arie, sentirsi libera anche nel cuore della città. È rimasta al Barbizon fino alla fine dei suoi giorni, nel 1932. E ancora oggi, tra quelle mura, sembra di sentire la sua voce — forte, piena, viva.

Grace Kelly

Quando arriva al Barbizon, Grace Kelly non ha ancora vinto un Oscar, non è la musa di Hitchcock né ha conosciuto il principe Ranieri. È lontanissima da quell’immagine lucente che le verrà cucita addosso. Ha diciotto anni, porta completi di tweed e occhiali dalla montatura in corno — senza i quali, per via della miopia, vede poco. A volte si muove con un’aria assorta e sognante che molti interpreteranno come fascino misterioso, ma che è in realtà solo una conseguenza del fatto che ha tolto gli occhiali per essere “più fotogenica”.
Viene da Philadelphia, figlia di una famiglia altolocata e molto esigente. Il padre, Jack Kelly, milionario che si è fatto da sé, campione olimpico di canottaggio e uomo d’affari, avrebbe voluto per lei un percorso più convenzionale. Ma nel 1947, complice il rientro dei soldati e l’ingresso massiccio degli uomini negli atenei, Grace non riesce ad accedere al Bennington College. Ne approfitta per manifestare un desiderio che covava da tempo: studiare recitazione.
 

A New York, tenta l’ammissione all’American Academy of Dramatic Arts. Nonostante le iscrizioni siano chiuse, riesce a ottenere un colloquio grazie all’intercessione dello zio George Kelly — fratello del padre — commediografo premiato con il Pulitzer. Durante l’audizione, recita una scena tratta proprio da una delle sue opere, The Torch-Bearers (1923). Viene ammessa.
Suo padre accetta a una condizione: alloggerà al Barbizon Hotel for Women. È il 1947, e il Barbizon è ancora una roccaforte femminile: sorvegliato, severo, elegante. Grace prende una delle piccole stanze con letto singolo e scrittoio. È un luogo spartano, ma pieno di promesse. Studia duramente, ma osserva anche tutto quello che la circonda. Annotava nei suoi quaderni ogni dettaglio dei monologhi, dei silenzi, delle pause, dei movimenti sul palco. Andava a vedere gli spettacoli a Broadway e incollava i biglietti e i programmi in un album, ordinati per data. Ne scriveva le impressioni a margine. È metodica, instancabile.

Al Barbizon, Grace Kelly costruisce se stessa pezzo per pezzo. Ama ballare lungo i corridoi sulle note della musica hawaiana, ridere con le amiche, ma anche analizzare ogni dettaglio del comportamento altrui. Sa che ogni gesto, ogni inflessione, ogni parola, possono diventare parte di una futura scena. Gli insegnanti dell’accademia le fanno notare che la voce è troppo acuta, troppo nasale. Lei non si abbatte. Compra un registratore e si esercita ogni giorno nella sua stanza, parlando, ascoltandosi, correggendo le imperfezioni, finché non conquista quel timbro rotondo e sofisticato che diventerà il suo marchio.

Come molte ragazze del Barbizon, tenta anche la strada della moda. Si presenta da Eileen Ford, ma l’agenzia la rifiuta: la reputano troppo “in carne”, con una bellezza troppo ordinaria. Un errore che la Ford Agency ammetterà più tardi come il più grande della sua storia. Grace si rivolge allora all’agenzia Powers, che la accoglie subito. Inizia così a posare per pubblicità, alcune anche controverse, come quelle di sigarette e insetticidi.


Nel 1949 si diploma all’Accademia. Dopo alcune esperienze teatrali, debutta a Broadway con Il padre di Strindberg, accanto a Raymond Massey. Due anni più tardi ottiene la sua prima parte al cinema in 14ª ora (1951). È a quel punto che lascia il Barbizon. Da lì in poi, la sua ascesa sarà inarrestabile.

Cloris Leachman


Oggi viene ricordata soprattutto per il suo ruolo irresistibile di Frau Blücher in Frankenstein Junior, ma Cloris Leachman è stata molto più di una figura comica. Attrice intensa, trasformista, e con un’ironia tagliente, ha vinto un Oscar, otto Emmy e attraversato il cinema e la televisione americani per oltre sessant’anni.
Nel 1946 ha vent’anni, arriva da Des Moines, Iowa, e porta con sé un piccolo capitale: sessanta dollari in tasca e una valigia carica di speranze. Il titolo di Miss Chicago, ottenuto poco prima, le ha regalato un primo riflettore addosso e il denaro necessario per affrontare il grande salto: New York.


Indossa un abito verde, una giacca a quadretti e un cappello da marinaio nero quando si presenta al Barbizon Hotel for Women. È emozionata, forse un po’ spaventata, ma determinata. Ottiene una stanza condivisa e inizia la sua rincorsa al sogno. Frequenta l’Actors Studio, dove studia con Elia Kazan, e si fa notare per l’energia, la prontezza, la sua capacità di portare in scena una gamma di emozioni che vanno ben oltre la bellezza.
 

Nel frattempo, ottiene una sostituzione nel ruolo di Nellie Forbush nel musical South Pacific, una parte ambitissima. Poi arriva Come Back, Little Sheba di William Inge. È il 1949. La produzione è ancora in prova a Westport, accanto a Shirley Booth. Una sera, dopo lo spettacolo, entra nel backstage una donna magnetica, dal portamento teatrale, nota per la voce roca, l’eloquenza scatenata e lo stile di vita anticonvenzionale: Tallulah Bankhead, leggenda vivente del teatro americano, femminista ante litteram, icona queer e soprattutto mito assoluto di Cloris.
Tallulah ha le lacrime agli occhi. Si avvicina, le prende la mano con enfasi e le dice: “Tu sei la Jeanne Eagels di oggi!”. Jeanne Eagels era stata una straordinaria attrice di Broadway e del cinema muto, celebre negli anni Venti per la sua intensità drammatica e la vita tormentata. Cloris non sa chi sia, lo scoprirà solo dopo, ma capisce che è un complimento raro. La Bankhead insiste: “Sei meravigliosa, amore mio… ma devi cambiare nome!”. Cloris non lo farà. Quel momento resta inciso nella sua memoria come una benedizione.
Poco dopo, riceve un invito inaspettato da Katharine Hepburn in persona: co-protagonista con lei in Come vi piace, produzione del 1950. Lascia Sheba e accetta. Sono anni incandescenti, di occasioni che si rincorrono. Due anni passati al Barbizon le hanno dato più di un tetto: una base sicura, una disciplina quotidiana, una rete di amiche, e quella sensazione – rara – che tutto potesse accadere, davvero.

Tippi, Shirley, Liza e Ali

Negli anni Cinquanta, il Barbizon continua a richiamare giovani donne pronte a inseguire un sogno, e tra loro ci sono anche future star. Tippi Hedren, ad esempio, arriva nel 1950, proprio nel giorno del suo ventesimo compleanno. È ancora sconosciuta, ma la sua eleganza non passa inosservata: firma con l’agenzia Ford e inizia a posare per campagne pubblicitarie. Per un po’ divide la sua quotidianità con le centinaia di ragazze che abitano tra le mura dell’hotel. Solo anni dopo verrà notata da Alfred Hitchcock, ma il tempo del Barbizon ha già lasciato un’impronta.

Anche Shirley Jones passa per il Barbizon: è il 1953, e i suoi genitori la lasciano lì con duecento dollari e molte speranze. La ragazza partecipa a tutti i provini disponibili, finché viene notata dai casting director di Rodgers e Hammerstein. Da lì inizia una carriera luminosa: interpreta ruoli da protagonista in musical come Oklahoma! e Carousel, e nel 1960 vince l’Oscar per Elmer Gantry. Più tardi sarà la madre della Famiglia Partridge, e nella realtà adotterà davvero David Cassidy.

Liza Minnelli, figlia di Judy Garland, arriva al Barbizon poco dopo, sempre nei primi anni Cinquanta. È giovanissima, e la madre, apprensiva, telefona ogni poche ore alla reception per controllare se è rientrata in stanza. Se non la trovano, ordina di cercarla. Nessuno osa contraddirla.

 

Nel 1958 è la volta di Ali MacGraw, che vive al Barbizon durante il periodo di stage presso la redazione di Mademoiselle. Scrive un articolo vivace sulle dinamiche sociali dei week-end nei college dell’Ivy League e respira quell’atmosfera sospesa, piena di aspirazioni e promesse, che il Barbizon continua a rappresentare per una generazione intera. Anche lei diventerà una star, e sarà la protagonista indimenticabile di Love Story.

L’hotel nel cinema e nella cultura pop

Nel tempo, il Barbizon non ha solo ospitato attrici: è diventato esso stesso un personaggio. Il suo fascino discreto, le regole inflessibili, la vita sospesa tra sogni e disciplina, hanno ispirato racconti, romanzi, articoli e film. Alcuni lo hanno citato esplicitamente, altri ne hanno ricalcato l’atmosfera in modo più sottile.
Già nel 1937 il film Palcoscenico, con Katharine Hepburn e Ginger Rogers, porta sullo schermo la vita di un gruppo di ragazze che abitano in una pensione per aspiranti attrici. Il Barbizon non è nominato, ma lo spirito è lo stesso: ragazze che dividono camere minuscole, affrontano audizioni, si aiutano e si invidiano, vivono con grazia e durezza i sacrifici del mestiere. Il film, basato sull’omonima pièce teatrale di Edna Ferber e George S. Kaufman, cattura l’essenza della New York teatrale dell’epoca, e molti spettatori dell’epoca avevano capito benissimo a quale tipo di edificio alludesse.

Due anni dopo, nel 1939, Elsa Maxwell — l’influencer ante litteram dell’élite americana, regina delle feste al Waldorf Astoria — collabora alla realizzazione di Elsa Maxwell’s Hotel for Women, diretto da Gregory Ratoff. Il soggetto nasce da un soggiorno della sceneggiatrice Kathryn Scola al Barbizon, pagato dalla 20th Century Fox proprio per “studiare” la vita delle ragazze dell’hotel. Il risultato è una commedia leggera ma rivelatrice: la protagonista, Marcia, arriva a New York per sposarsi, viene lasciata, ma trova al Barbizon nuove amiche, un lavoro come modella e — naturalmente — un nuovo amore. Maxwell interpreta sé stessa in una delle scene. È la prima volta che il Barbizon, pur camuffato con il nome fittizio “Sherrington”, diventa ambientazione riconoscibile per un’intera narrazione cinematografica.
Nel 1944 Rita Hayworth posa per Life nella palestra del Barbizon insieme a vere modelle, promuovendo il film Fascino. La coincidenza non è banale: la protagonista, Rusty, è un’aspirante ballerina di musical che diventa il volto di una rivista, attraversando l’industria della moda. Proprio come le ragazze che ogni giorno varcano l’ingresso del Barbizon. È un esempio di come, nella Hollywood degli anni ’40, la realtà e la finzione si rincorrono, influenzandosi a vicenda.


Nell 1959 esce Donne in cerca d'amore, film tratto dal romanzo omonimo di Rona Jaffe, con Hope Lange nei panni della “classica ragazza del Barbizon” che lavora in una casa editrice e condivide un appartamento con due amiche. Anche qui, il Barbizon non è citato per nome, ma è evidente: lo stile di vita, le aspirazioni, i timori, i cortili affollati di sogni e sigarette. Il film diventa un punto di riferimento per tutte le narrazioni successive sul tema delle ragazze a New York, precursore perfino di Sex and the City.
Nel 1963 compare nel libro che più di ogni altro ne immortala l’essenza: The Group, il romanzo di Mary McCarthy ambientato tra il 1933 e il 1940. Una delle protagoniste, Polly, va a vivere al Barbizon dopo la laurea a Vassar. Il romanzo non lo chiama mai per nome, ma lo descrive con precisione, dalle stanze alla disposizione dei piani, alle regole per ricevere visitatori. In quegli anni è così noto che bastano pochi dettagli perché il lettore capisca. The Group è un successo immediato, scandaloso e intellettuale, e l’adattamento cinematografico del 1966 ne amplifica la popolarità.
In definitiva, il Barbizon non ha ispirato solo un immaginario: è diventato esso stesso un topos narrativo. La “ragazza del Barbizon” è ormai un archetipo. Colta, ma non ricca. Elegante, ma con abiti presi in prestito. Romantica, ma determinata. Ha un sogno preciso: diventare qualcuno. Non sempre ci riesce. Ma ogni storia comincia comunque da lì: da una stanza affacciata su Lexington Avenue.

La fine di un’epoca, l’inizio di un’altra

Negli anni Settanta, l’edificio comincia a mostrare segni di stanchezza. La struttura è datata, l’occupazione cala, le nuove generazioni cercano appartamenti più moderni e meno regolamentati. Le ristrutturazioni iniziano lentamente, piano dopo piano, ma è chiaro che serve un cambio di rotta radicale. Così, nel 1981, dopo più di mezzo secolo di esclusività femminile, il Barbizon apre per la prima volta anche agli uomini. È la fine di un’epoca.
Le 700 stanzette originarie vengono ridotte e riconfigurate: molte di esse, minuscole e spesso prive di bagno, vengono accorpate per creare camere più ampie, ciascuna con i propri servizi. Alcuni piani restano riservati alle residenti storiche, protette dalle leggi sull’affitto controllato. Ma l’atmosfera del vecchio Barbizon, con i suoi salotti condivisi e le serate tra donne, è ormai un ricordo.
Nel 1983, la compagnia aerea KLM compra l’edificio e lo ribattezza Golden Tulip Barbizon Hotel. Pochi anni dopo, nel 1988, subentra una coppia celebre nella nightlife newyorkese: Ian Schrager e Steve Rubell, fondatori dello Studio 54. La loro idea è quella di trasformarlo in una spa urbana d’élite, ma l’esperimento dura poco.
Nel 2001, entra in scena il Berwind Property Group, che rilancia l’edificio sotto il nome di Melrose Hotel. È l’ultimo passo prima della grande trasformazione. Tra il 2005 e il 2006, il Barbizon viene completamente ristrutturato e convertito in una residenza privata di lusso: nasce il Barbizon/63. Lo studio CetraRuddy si occupa della riconversione degli interni, salvaguardando lo stile storico ma aggiornandolo secondo i codici dell’alta gamma immobiliare. Le unità sono solo 66, distribuite tra appartamenti eleganti, duplex, attici con terrazze. I prezzi? Da capogiro.
Eppure, in questo nuovo mondo scintillante, un piccolo gruppo di donne è riuscito a resistere. Sono le “Barbizon Women”, le ultime residenti dell’epoca precedente, che grazie al sistema di affitti protetti hanno potuto mantenere il proprio spazio anche durante le trasformazioni. Alcune vivono lì ancora oggi: silenziose custodi di un tempo passato.

Nel 2012, la città di New York ha riconosciuto ufficialmente il valore storico e culturale del Barbizon, inserendolo tra i Landmark. Un gesto simbolico ma necessario, per ricordare che quell’edificio non è solo un indirizzo di lusso, ma un pezzo di storia urbana, sociale, culturale.
E anche se oggi al suo interno non ci sono più le biblioteche comuni, le sale musica o le stanze condivise, qualcosa del suo spirito sopravvive ancora. Perché il Barbizon non è mai stato solo un hotel. È stato un esperimento sociale, un rifugio, un trampolino di lancio. È stato sogno, disciplina, ambizione. E resta, anche ora, un luogo dove le storie non smettono mai di abitare.

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