Margaret Rutherford: La vita da giallo della prima Miss Marple del cinema
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C’è una donna che attraversa i binari avvolta in un cappotto grigio, il cappello in testa, una borsa ben stretta al braccio. Avanza con passo deciso, occhi attenti, e nessuno immagina che dietro quell’apparenza da zitella eccentrica si nasconda una mente acuta, capace di risolvere delitti meglio di Scotland Yard.
È il 1961, e sullo schermo appare per la prima volta Miss Marple. Ma non quella fragile e riservata immaginata da Agatha Christie nei suoi romanzi: questa è una donna energica, ironica, imprevedibile. È Margaret Rutherford.
Con Assassinio sul treno, primo dei quattro film dedicati alla detective inglese più famosa al mondo, Rutherford reinventa il personaggio: lo veste con i suoi abiti personali, gli dà una nuova vitalità, gli presta la sua voce profonda e lo sguardo vivace. Una Marple più rumorosa, più corporea, più irresistibile. E proprio per questo, indimenticabile.
All’inizio, Agatha Christie non ne fu entusiasta. Trovava quella versione troppo distante dalla sua Miss Marple letteraria, più sobria e riflessiva. Ma con il tempo, tra le due donne nacque una sincera amicizia.
Eppure, dietro quella figura amata in tutto il mondo, c’era una donna che per tutta la vita aveva combattuto con il peso del suo passato. Una donna segnata fin dall’infanzia da segreti familiari e tragedie che sembrano usciti da un romanzo gotico. Una donna che ha avuto successo tardi, e che mai si è davvero scrollata di dosso la paura più grande: quella di perdere la ragione.
E come in ogni buon giallo, anche dopo la parola “fine” ci sarebbe stato un ultimo mistero: un’eredità contesa, un testamento falsificato, e un Oscar scomparso. Una trama così intricata che persino Miss Marple avrebbe avuto il suo bel da fare.
Un passato difficile da dimenticare
Margaret Taylor Rutherford nasce a Balham, nel sud di Londra, l’11 maggio 1892. Ma per comprendere davvero il suo percorso, bisogna fare un lungo passo indietro, in un’Inghilterra vittoriana dove rispettabilità e tragedia spesso camminano fianco a fianco.
Suo padre, William Rutherford Benn, è il sesto di otto figli del reverendo Julius Benn, pastore congregazionalista, filantropo attivo a Stepney Green, nell’East End di Londra. La famiglia Benn è parte della solida borghesia inglese: colta, religiosa, ben inserita nella vita sociale e politica dell’epoca. William, dotato di talento per le lingue e per la poesia, lavora come traduttore e impiegato commerciale. È brillante, gentile, ma afflitto da una fragilità emotiva profonda, che ancora non ha un nome.
Il 16 dicembre 1882 sposa Florence Nicholson nella chiesa di All Saints a Wandsworth. Florence è orfana, cresciuta accanto alla sorella Bessie dopo il suicidio della sorella minore. È una giovane donna riservata, gentile, con un desiderio silenzioso di stabilità.
Ma la luna di miele a Parigi si trasforma presto in un incubo. William ha un grave esaurimento nervoso: rientra a Londra in uno stato di confusione, tormentato da crisi sempre più violente. Viene ricoverato al Bethnal House Asylum, un manicomio nell’East End, dove resta alcune settimane. Verso la fine di febbraio 1883, i medici lo giudicano temporaneamente migliorato. Il reverendo Julius decide di portarlo in convalescenza a Matlock, località termale nel Derbyshire, sperando che le acque e l’aria di campagna possano restituirgli un po’ di pace. I due alloggiano in una pensione familiare a Matlock Bridge, chiamata “The Cottage”, gestita da un certo signor Marchant.
La notte tra il 3 e il 4 marzo 1883, accade l’impensabile. William, in un momento di totale alienazione, uccide il padre Julius, colpendolo con un pesante vaso da notte in ceramica Staffordshire mentre dorme.
La mattina successiva, il padrone di casa entra nella stanza allarmato dal silenzio e trova una scena agghiacciante: William, in camicia da notte intrisa di sangue, sta muto e immobile accanto al letto, indicando il corpo del padre. Julius è disteso, il cranio sfondato. William ha tentato di tagliarsi la gola con un coltellino tascabile e barcolla per la stanza, perdendo sangue. Viene arrestato sul posto. I medici suturano la ferita, gli salvano la vita. Subito si diffonde la notizia: l’assassino è William Benn, 28 anni, uscito da poco dal Bethnal House.
Durante l'inchiesta, William si mostra allucinato, arriva persino a confondere il capo della polizia con Ponzio Pilato, in un delirio religioso. Il verdetto è chiaro: ha “volontariamente assassinato” suo padre, ma l’atto è riconducibile a infermità mentale. Non si apre un processo ordinario.
Viene internato a tempo indeterminato al Broadmoor Criminal Lunatic Asylum, struttura ad alta sicurezza nel Berkshire.
Il fratello maggiore, John Benn, politico liberale di rilievo, gli fa spesso visita e si adopera per migliorare le condizioni dei detenuti, organizzando anche attività ricreative.
Ma è soprattutto Florence, la moglie, a restargli accanto con una fedeltà incrollabile. Per tutti i sette anni di detenzione, gli scrive una lettera al giorno, raccontando piccole cose, coltivando la speranza.
Nel luglio 1890, dopo molte pressioni e valutazioni mediche, William viene dichiarato sufficientemente ristabilito. John Benn garantisce personalmente per lui presso il Ministero dell’Interno. William esce dal manicomio e viene affidato alla custodia dei parenti a Londra.
Ma il nome Benn, ormai, è macchiato per sempre. Per proteggere la figlia che nascerà, e la rispettabilità della famiglia, William cambia legalmente cognome: da quel momento si fa chiamare William Rutherford. Si ricongiunge con Florence. I due si trasferiscono a Balham, dove William lavora in attività collegate all’import-export orientale. L’11 maggio 1892 nasce Margaret. Sul certificato di nascita, William è indicato come “mercante per l’India Orientale”. Ma il passato è difficile da dimenticare. Pochi mesi dopo la nascita, la famiglia si trasferisce in India, a Madras, probabilmente per motivi di lavoro, ma anche per allontanarsi da Londra e da tutto ciò che quel nome – Benn – ancora rappresenta.
Quando Margaret ha solo tre anni, sua madre Florence comincia a mostrare segni di forte instabilità. È di nuovo incinta, e i suoi sbalzi d’umore si fanno sempre più imprevedibili. William capisce che qualcosa non va. Decide di riportarla in Inghilterra, sperando che la sorella Bessie possa aiutarla. Ma il viaggio dall’India si rivela troppo lungo, troppo tardi.
Una mattina, una cameriera trova Florence impiccata a un albero nel giardino di casa. Come sua sorella prima di lei, anche Florence ha ceduto al buio della depressione. È il secondo suicidio nel giro di due generazioni. La bambina, inconsapevole di tutto, viene riportata in Inghilterra.
Zia Bessie la accoglie nella sua casa di Wimbledon, dove Margaret trascorrerà tutta l’infanzia. È una donna forte, solida, che le impartisce un’educazione severa ma amorevole. Per rafforzarle la postura – troppo debole – ogni giorno la costringe a restare di stesa immobile sul pavimento mentre le legge ad alta voce in francese. Una disciplina bizzarra ma affettuosa, che forgia in Margaret un portamento elegante e una dizione perfetta, qualità che le torneranno utili sulla scena.
Il padre, nel frattempo, viene nuovamente ricoverato per un altro tentativo di suicidio, e poi fatto sparire dalla narrazione familiare. A Margaret viene detto che è morto.
Ma la verità, come accade nei romanzi di Agatha Christie, trova sempre il modo di riaffiorare.
Quando Margaret ha dodici anni un vagabondo bussa alla porta di casa di sua zia, in cerca di cibo o riparo. Parla troppo. E tra le parole, dice qualcosa che gela il sangue della ragazzina: che suo padre è ancora vivo, internato in manicomio per aver ucciso il padre.
È un momento che Margaret non dimenticherà mai.
Si paralizza dalla paura. Teme che quell’uomo – che credeva morto – possa uscire dal manicomio e venire a cercarla. Come ha ucciso suo nonno, potrebbe uccidere anche lei. Resta chiusa in casa per mesi, incapace di tornare a scuola. Da quel giorno, inizia a vivere con la paura di ereditare la follia. È un pensiero che l’accompagnerà per tutta la vita, come un’ombra silenziosa.
Ma forse il tratto più straordinario di questa storia è ciò che Margaret decide di non fare. Durante tutta la sua lunga carriera pubblica, non parlerà mai delle tragedie che hanno segnato la sua infanzia. Non una parola in interviste, non un’allusione nei discorsi pubblici. E nemmeno nella sua autobiografia, pubblicata decenni più tardi. Lì, racconta una versione edulcorata: scrive che suo padre era “un romantico complicato”, morto per “un tragico incidente” poco dopo la madre, lasciandola orfana. Non menziona l’omicidio. Né il manicomio. Né il terrore. Margaret Rutherford sceglie il silenzio. E forse, in quel silenzio, c’è una forma di protezione. Un modo per custodire ciò che è stato, senza permettergli di definire ciò che sarà.
La casa di zia Bessie, al 4 Berkeley Place a Wimbledon, è una villetta in mattoni rossi, ordinata e silenziosa. Qui, Margaret cresce accudita con rigore e tenerezza. Non ci sono altri bambini, né giochi condivisi. Solo lei, tre gatti dai nomi solenni – Napoleone, Dante e Beatrice – e un canarino giallo di nome Sydney.
Zia Bessie, rimasta nubile, è una donna austera ma affettuosa. Ha regole precise e pratiche educative tutte sue. Ogni giorno, per rafforzarle la postura, fa sdraiare Margaret immobile sul pavimento mentre le legge ad alta voce in francese. Il metodo funziona: la bambina sviluppa un portamento elegante e un’ottima pronuncia, che anni dopo diventeranno strumenti di lavoro.
A otto anni, durante una recita scolastica di Natale, sale per la prima volta su un palcoscenico. Il pubblico ride, e lei scopre una strana forma di energia. A dodici anni scrive con altre 3 amiche sul giornale scolastico, The Pinc (prende il nome dalle loro iniziali, lei si fa chiamare Peggy).
A quattordici anni, la zia la iscrive alla Ravenscroft Boarding School di Seaford. Dopo gli studi, Margaret decide di ottenere un diploma come insegnante di pianoforte. È una scelta pratica, che le permette di mantenersi. In seguito si diploma anche in dizione alla Royal Academy of Music, consapevole che in Inghilterra, un buon eloquio è fondamentale per ottenere rispetto e occasioni.
Insegna, anche se con poca convinzione: non ha pazienza, si distrae, non si sente davvero portata. Ma quelle lezioni le permettono di vivere, almeno finché non troverà il coraggio di tentare il salto.
E la vita la mette di fronte al salto nel 1923, quando zia Bessie, l’unica figura genitoriale della sua vita, muore. Margaret eredita una piccola somma e con quella, finalmente, sceglie di investire in corsi di recitazione. A 31 anni si prepara a cominciare da capo.
L'arrivo sulla scena
Ottiene un’audizione con Lilian Baylis, la leggendaria direttrice dell’Old Vic Theatre, soprannominata la "regina del teatro inglese". Sotto la sua guida si sono formati nomi destinati a diventare immortali: Laurence Olivier, Ralph Richardson, John Gielgud. Margaret è emozionata, fuori posto.
Per l’occasione indossa un vestito verde brillante e delle scarpe a punta nuove, molto moderne, in stile Gloria Swanson. Le scarpe scricchiolano a ogni passo, e il terrier della Baylis si mette ad abbaiare furiosamente. È un disastro.
Contro ogni aspettativa, qualche mattina dopo riceve una lettera: è stata accettata. Permettetemi la digressione da potteriana: fa tanto ammissione a Hogwarts.
Nel 1925 comincia la sua prima stagione all’Old Vic. Ha 33 anni, ed è una delle debuttanti più tardive mai apparse su quel palco. Ottiene piccoli ruoli: Lady Capuleti in Romeo e Giulietta, poi parti minori in Cesare e Cleopatra. Dopo un anno, arriva la doccia fredda: non verrà riconfermata per la stagione 1926.
Margaret torna a insegnare pianoforte e dizione, ma non rinuncia al teatro.
Si unisce a compagnie amatoriali a Wimbledon, come il Grand Theatre di Fulham e l’Epsom Little Theatre. È un periodo di adattamenti e pazienza, ma non smette di mettersi alla prova.
Nel 1933 debutta finalmente nel West End, ma è nel 1939, con L'importanza di chiamarsi Ernest diretta da John Gielgud, che arriva la vera attenzione della critica. Nel ruolo di Miss Prism, goffa e tenerissima, Margaret conquista il pubblico.
Seguono anni intensi: Mrs. Danvers in Rebecca (1940), la strepitosa Madame Arcati in Spirito allegro (1941), la Regina di Cuori in Alice nel paese delle meraviglie (1944). Il suo stile, comico e impetuoso, è ormai riconoscibile. Il critico teatrale Kenneth Tynan dirà: “La cosa unica in Margaret Rutherford è che riesce a recitare con il solo mento.”
Nel 1945, il regista David Lean la chiama proprio per interpretare nuovamente Madame Arcati anche sul grande schermo, nella versione cinematografica di Spirito allegro. Le riprese richiedono oltre sei mesi, a causa dell’uso ancora poco diffuso del Technicolor, soprattutto in produzioni che non hanno alle spalle un grande studio. Il film, però, si fa notare: riceve l’Oscar per i migliori effetti speciali, e segna per Margaret l’inizio della carriera cinematografica.
Compagni per la vita
Tra i tanti ruoli che Margaret ha interpretato nella sua carriera, quello della compagna fedele è forse il più silenzioso, ma anche il più duraturo.
La sua vita sentimentale non è mai finita sui giornali, né ha alimentato scandali. Eppure, è stata segnata da un amore autentico, coltivato con rispetto, discrezione e una dolcezza fuori dal tempo.
Lui si chiama James Buckley Stringer Davis, attore di teatro e di cinema, ma anche uomo timido, educato, riservato. Si incontrano negli anni Trenta, in una compagnia teatrale. Margaret, allora, è una figura eccentrica ma ancora ai margini del successo. Stringer è più giovane di sette anni, ha un portamento da gentiluomo e un ciuffo ribelle che le strappa un sorriso ogni volta che lo guarda.
È proprio quel dettaglio a ispirarle il soprannome che gli resterà per tutta la vita: “Tuft” – che in inglese significa “ciuffo”, o più precisamente una ciocca di capelli che spunta fuori, spettinata, imprevedibile. Come lui.
Nell’autobiografia Margaret confessa: “Cercavo di nascondere i miei sentimenti, ma a quanto pare non riuscivo a staccargli gli occhi di dosso.”
Non si dichiarano subito. Per anni il loro legame resta sospeso, tenero ma mai esplicito, in bilico tra affetto e timidezza. Solo dopo la morte della madre di Stringer – una donna estremamente protettiva, che non approvava la loro unione – riescono finalmente a sposarsi. Margaret ha 53 anni, Stringer 46. Da quel momento, non si separeranno più.
Vivono dapprima a Gerrards Cross, poi, nei primi anni Sessanta, si trasferiscono a Chalfont St Peter, in una villetta a Elm Close, immersa nel verde. Gli alberi attorno la fanno sembrare una casa nel bosco.
«L’abbiamo scelta per il cerchio di bucaneve in giardino», racconta Margaret. Ogni inverno, quei fiori sbocciano anche con la neve ancora al suolo, e la coppia si raccoglie lì, ben coperta da scialli e plaid, per prendere il caffè del mattino attorno a un tavolino allestito proprio accanto al cerchio.
Dentro casa, la scena è altrettanto affettuosa. Un grande camino a incasso diventa il cuore delle giornate: leggono poesie, prendono il tè. Ogni stanza è piena di oggetti raccolti nei viaggi, ricordi mescolati a porcellane, casette per uccelli e antichi mobili ereditati dalla madre di Stringer – il cui ritratto in una cornice dorata ovale sembra osservarli costantemente, cadendo puntualmente nei momenti meno opportuni.
Margaret ama cucinare. Stringer la definisce “la più grande cuoca di pollame al mondo” e aggiunge: “Se dovessi scegliere il mio ultimo pasto, vorrei che lo preparasse lei.”
Il giardino è invece il regno di Stringer, curato con meticolosa passione. C’è un rosaio alto e disordinato che riesce a fiorire persino in pieno inverno.
E quando arriva per Margaret il tempo della gloria cinematografica, lei non ha dubbi: vuole Stringer accanto a sé anche sullo schermo. Inventeranno per lui un personaggio che nella storia originale non esiste – Mr. Stringer, il devoto assistente di Miss Marple – e chiederà che venga inserito in ogni film della serie. Perché l’amore, a modo suo, sa anche trovare il modo di entrare in scena.
La prima Miss Marple del grande schermo
Non è solo una questione di tono, né di immagine pubblica. È qualcosa di molto più profondo. Per tutta la vita, Margaret ha tenuto lontano da sé le storie di delitti e crimini. Il suo passato familiare, segnato dalla follia e da un omicidio reale – quello commesso dal padre – ha lasciato una traccia silenziosa ma costante. Accettare un ruolo legato al mondo dell’omicidio le sembra una forma di tradimento.
“Odio l’omicidio più di qualsiasi altra cosa.”
Eppure, qualcosa comincia a incrinarsi. Margaret legge la sceneggiatura di David Pursall e Jack Seddon, tratta da 4.50 from Paddington, e scopre una figura ben diversa da quella che immaginava. Miss Marple non è cinica, né dura. È “chiaramente una donna perbene”, intelligente, calma, lucida.
E poi, tra i personaggi, c’è un ruolo perfetto per Stringer: un bibliotecario del villaggio, un assistente fedele, sempre accanto alla protagonista.
È un’opportunità rara, pensata con naturalezza, che permette anche a lui di brillare.
Le esitazioni però non spariscono. Una sera, durante una delle sue indecisioni più teatrali, Margaret arriva a pensare di consultare il vicario temendo di poter essere scomunicata. Come se, per calarsi in quei panni, servisse una sorta di assoluzione morale.
Alla fine, è una combinazione di fattori a farle cambiare idea.
Il regista George Pollock, con tatto, le dice che risolvere un omicidio è come giocare a scacchi.
E in sottofondo, cominciano ad arrivare i non troppo delicati promemoria del fisco: lettere, solleciti, numeri. Accettare quel film sarebbe anche un modo per rimettere in ordine le finanze.
Il giorno di Natale del 1960, mentre Stringer sorveglia l'arrosto nel forno, Margaret prende il telefono e chiama George Pollock. «Parla Miss Rutherford. Sarei onorata di interpretare Miss Jane Marple.» Il regista le risponde che è il regalo di Natale più bello che potesse ricevere.
Non tutti però sono entusiasti. Agatha Christie, inizialmente, si mostra scettica. La sua Miss Marple è ispirata a una zia minuta e discreta, ben diversa dalla figura imponente e teatrale di Margaret. Ma dopo un primo momento di diffidenza, le due si incontrano, si osservano, si ascoltano. E nasce un’amicizia sincera, fatta di rispetto e stima reciproca. Tanto che Christie è a lei che dedica il suo romanzo Assassinio allo specchio: A Margaret Rutherford, con ammirazione.
Tra il 1961 e il 1964, Margaret Rutherford interpreta Miss Marple in quattro film tutti diretti da George Pollock. Accanto a lei, nel ruolo dell'inseparabile Mr. Stringer, c'è il marito Stringer Davis. Sebbene non tutti i film siano tratti da romanzi con protagonista Miss Marple, l'adattamento dei personaggi e delle trame ha reso ciascuna pellicola un successo.
1) Assassinio sul treno (Murder, She Said, 1961)
Tratto dal romanzo 4.50 from Paddington, il film segue Miss Marple mentre, durante un viaggio in treno, assiste a un omicidio su un convoglio adiacente. Nonostante lo scetticismo della polizia, decide di indagare personalmente, infiltrandosi come domestica nella dimora della famiglia Ackenthorpe, vicino al luogo del delitto. Il film ottiene un notevole successo al botteghino, generando un profitto di 342.000 dollari per la MGM, rendendolo il film più redditizio dello studio in un anno altrimenti deludente.
2) Assassinio al galoppatoio (Murder at the Gallop, 1963)
Basato sul romanzo After the Funeral di Agatha Christie, originariamente con protagonista Hercule Poirot, il film vede Miss Marple indagare sulla morte di un ricco anziano, presumibilmente deceduto per un attacco di cuore. Sospettando un omicidio, si reca al "Gallop Hotel", un centro ippico gestito da Hector Enderby, dove risiedono i principali sospettati, tutti parenti del defunto.
3) Assassinio a bordo (Murder Ahoy!, 1964)
Questo film presenta una trama originale non basata su un'opera specifica di Christie. Miss Marple, recentemente nominata nel consiglio di amministrazione di una nave scuola per giovani delinquenti riformati, scopre che uno dei membri del consiglio è stato avvelenato. Decide quindi di imbarcarsi per indagare sotto copertura.
4) Assassinio sul palcoscenico (Murder Most Foul, 1964)
Liberamente ispirato al romanzo Mrs McGinty's Dead, anch'esso con protagonista originale Poirot, il film inizia con Miss Marple come unico membro della giuria a dubitare della colpevolezza di un uomo accusato di omicidio. Convinta della sua innocenza, si unisce a una compagnia teatrale amatoriale per indagare, sospettando che il vero assassino sia tra gli attori.
Un elemento distintivo che accompagna l'interpretazione di Margaret Rutherford nei panni di Miss Marple è la colonna sonora composta da Ron Goodwin. Il tema principale, vivace e leggero, riflette perfettamente l'approccio arguto e determinato dell'investigatrice. Questa melodia diventa un marchio di fabbrica, contribuendo a creare l'atmosfera unica che permea l'intera serie di film.
Col tempo, la sua versione di Miss Marple è diventata la più amata dal pubblico. Forse perché è più attiva, più visibile, più umana. Una zitella adorabile, testarda, con lo sguardo da rapace e un modo di fare a tratti sfacciato.
È difficile non riconoscere in lei un’antenata diretta di un’altra celebre investigatrice televisiva: Jessica Fletcher, la “Signora in giallo” resa immortale da Angela Lansbury. La serie infatti prende il titolo proprio da Murder, She Said, e non è un caso. Anche Jessica ha lo sguardo gentile ma tagliente, la mente acuta e il passo deciso di chi non si lascia mai ingannare dalle apparenze.
E il legame si chiude con una coincidenza perfetta: nel 1980, è proprio Angela Lansbury a interpretare Miss Marple nel film Assassinio allo specchio, tratto dallo stesso romanzo che Agatha Christie aveva dedicato a Margaret. Come se il personaggio avesse fatto il giro completo della sua leggenda, passando il testimone da una grande signora del mistero all’altra.
E l’Oscar va a…
Nel 1963, Margaret Rutherford partecipa a quello che sarà il film più prestigioso della sua carriera cinematografica: The V.I.P.s, distribuito in Italia con il titolo International Hotel.
È una grande produzione della MGM, ambientata nell’aeroporto di Londra, che si ispira alla struttura del celebre film corale degli anni Trenta, Grand Hotel: più storie parallele che si intrecciano nello spazio sospeso di una sala partenze, tra amori, crisi, segreti e decisioni irrevocabili.
Il cast è straordinario: Elizabeth Taylor, Richard Burton, Louis Jourdan, Maggie Smith, Orson Welles, Elsa Martinelli. Ognuno interpreta un personaggio alle prese con un momento di svolta, e tra questi c’è anche lei: Margaret Rutherford nel ruolo di una vecchia duchessa eccentrica e malinconica, decisa a lasciare la Gran Bretagna ma ostacolata da cavilli burocratici.
Accanto a lei, nel ruolo di un discreto cameriere, c’è ancora una volta Stringer Davis.
Il ruolo è breve ma memorabile. Margaret ruba ogni scena con naturalezza, incarnando la dignità tragica e tenera di una donna che rifiuta di sentirsi finita.
Il pubblico la adora. La critica la acclama. L’Academy le assegna l’Oscar come miglior attrice non protagonista, insieme al Golden Globe nello stesso anno.
Ma il momento della cerimonia resta avvolto da un piccolo mistero. Non si sa perché Margaret non si presenti a ritirare la statuetta, forse il viaggio negli States l'avrebbe provata troppo. Al suo posto sale sul palco Peter Ustinov. Un gesto che – in retrospettiva – sembra quasi un passaggio simbolico di testimone: qualche anno dopo, proprio Ustinov diventerà il nuovo volto di Hercule Poirot al cinema, ereditando così, almeno in parte, il mondo di Agatha Christie.
Il primo telegramma che Margaret riceve dopo la notizia dell’Oscar è firmato Elizabeth Taylor e Richard Burton, che le scrivono dall’America per congratularsi. La statuetta, una volta arrivata, viene collocata da Margaret con orgoglio sul camino di Elm Close.
Cala il sipario
Dopo il trionfo di International Hotel, Margaret Rutherford torna ancora una volta sul set. Ma qualcosa è cambiato. La stanchezza si fa sentire, e la memoria comincia a vacillare. Ma la sua voglia di recitare non si spegne.
Nel 1965 compare brevemente, e senza essere accreditata, in Poirot e il caso Amanda, adattamento ironico con Tony Randall nei panni del detective belga.
Lo stesso anno il produttore Jerome Epstein le scrive una lettera appassionata per convincerla ad accettare un ruolo ne La contessa di Hong Kong, accanto a Sophia Loren e Marlon Brando dicendole che rifiutare renderebbe il “cuore spezzato” sia lui che Charlie Chaplin (tornato alla regia), che la trovava “meravigliosa e divertente da dirigere”. La parte è breve ma memorabile.
Nel 1967 Margaret viene nominata Dama dell’Impero Britannico, una delle più alte onorificenze civili del Regno Unito, conferita per il suo straordinario contributo al teatro e al cinema.
Nel 1970, viene scelta per The Virgin and the Gypsy, ma durante le riprese si frattura un’anca. Poco dopo, arriva una diagnosi inesorabile: Alzheimer.
Margaret è costretta a ritirarsi dalla scena. Non lo fa con clamore, né con lamenti. Ma in privato, confessa con dolcezza amara:
«Avrei tanto voluto essere un’attrice classica. Come Sarah Bernhardt, la Duse o Ellen Terry. Ci sono così tante opere che avrei voluto recitare.»
Quel sogno non realizzato – quello di calcare il palcoscenico shakespeariano con i grandi ruoli tragici – rimane il suo unico vero rimpianto.
Nel 1972, a ottant’anni, Margaret muore per complicazioni dovute a una polmonite. Accanto a lei, fino all’ultimo, c’è Stringer Davis. Un anno dopo, anche lui la raggiungerà, e saranno sepolti insieme.
Il 21 luglio 1972, la Cattedrale di St. Paul accoglie una commemorazione solenne. A renderle omaggio ci sono John Gielgud, Ralph Richardson, Joyce Grenfell, Sybil Thorndike, e tante altre voci del teatro britannico.
Nel foyer del Gielgud Theatre, oggi, c’è un ritratto a olio realizzato dall’artista Michael Noakes.
È un omaggio silenzioso, eppure eloquente.
L’ultimo mistero
Quando Margaret Rutherford muore nel 1972, la sua eredità sembra essere una cosa semplice: una carriera luminosa, una casa piena di ricordi, una collezione di oggetti accumulati in una vita tra palcoscenico e set. Eppure, negli anni successivi alla sua morte, la vicenda si trasforma in un vero e proprio giallo. Uno di quelli che lei stessa, nei panni di Miss Marple, avrebbe sicuramente risolto.
Negli ultimi anni della sua vita, Margaret aveva accolto in casa una vecchia conoscenza, una ex cantante lirica in declino di nome Violet Lang-Davis, che le faceva da dama da compagnia. Dopo la morte dell’attrice, Violet resta a vivere nella casa di Elm Close per prendersi cura del vedovo, Stringer Davis. I due diventano molto intimi, al punto che si vocifera vogliano sposarsi. Ma Stringer muore nel 1973, un anno dopo Margaret. E qui inizia il mistero.
Nel testamento di Stringer, tutto viene lasciato alla moglie – anche se lei era già morta. I beni sarebbero quindi dovuti andare a un cugino lontano di Davis. Violet, però, non ci sta. E comincia a muoversi nell’ombra: si reca dal parroco di Brook Green, padre Joseph Williams, e lascia nella canonica una copia di un testamento fasullo che la nomina unica erede. Allegato, un biglietto che chiede al sacerdote di inoltrarlo agli avvocati della famiglia.
Nel frattempo, comincia a vendere gli averi dell’attrice: porcellane, mobili, argenteria, e perfino i premi più preziosi. Si presenta da un antiquario di Fulham come “nipote di Margaret Rutherford” e vende l’Oscar e il Golden Globe per poco più di mille sterline.
Ma i sensi di colpa – o la paura – la tradiscono. Violet chiama la polizia fingendo che in casa ci sia stato un furto con scasso. L’ispettore Paul Hunter inizia un’indagine, e poco dopo scopre la verità: non c’è stato nessun furto. È stata lei a vendere tutto. Messa alle strette, confessa:
«Ero disperata. Avevo bisogno di soldi per vivere.»
Un perito calligrafico dimostra che il testamento è un falso. Violet viene arrestata nell’ottobre del 1975 e trattenuta a Holloway, in attesa del processo per frode, falsificazione e furto. Ma quando arriva il giorno dell’udienza, sparisce nel nulla. Un mandato d’arresto viene emesso, ma non verrà mai eseguito.
Nel 1985, dieci anni dopo, alcune medaglie appartenute a Margaret Rutherford riappaiono in vendita da Sotheby’s. L’ispettore Hunter, tornato nel frattempo in Inghilterra, le sequestra. Sono gli ultimi oggetti ancora rintracciabili. L’Oscar e il Golden Globe non torneranno mai indietro.
La donna che ha portato sullo schermo la più acuta tra le investigatrici immaginarie si è trovata, ironia del destino, al centro di un mistero che nessuno è riuscito a risolvere davvero.
Insomma, Margaret Rutherford, con la sua grazia e la sua ferocia comica, ha sempre saputo confondere le apparenze e sorprendere il pubblico fino all’ultima scena.
Spero che questo racconto vi abbia mostrato qualcosa che non conoscevate, come piace a me: la storia dietro la storia.
Perché anche dietro un personaggio iconico, a volte si nasconde una vita molto più straordinaria della finzione.
LINK UTILI:
Assassinio allo specchio 👉 qui
La signora in giallo Jessica Fletcher, la scrittrice indagatrice 👉 qui
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