Dorothy Kilgallen: la giornalista che sapeva troppo
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È matematico: ogni volta che finisco su YouTube, prima o poi l’algoritmo mi porta dritta a un video di What’s My Line?, il game show degli anni ’50 che ospita tra le sue guest star le leggende di Hollywood. Come lo so? Perché ogni volta che ne vedo uno per caso, finisco inevitabilmente per guardarne altri dieci. L’algoritmo sa.
A questa trasmissione ho dedicato due articoli, ma in breve: quattro esperti del mondo dello spettacolo, bendati, devono riconoscere una celebrità solo attraverso le domande che fanno. Un format semplice, ma affascinante. E tra i volti fissi del panel, ce n’è uno che mi colpisce più di tutti: Dorothy Kilgallen. La sua intelligenza tagliente, la sua cultura sconfinata, la rapidità con cui analizza ogni dettaglio la distinguono immediatamente. Guardandola all’opera, si capisce che è abituata a scavare in profondità.
Non è un caso che Ernest Hemingway l’abbia definita “una delle più grandi scrittrici del mondo”, né che la stampa l’abbia consacrata come “la voce femminile più potente d’America”.
Quando scopro per caso che è morta in circostanze misteriose mentre indagava sull’assassinio di John F. Kennedy, rimango folgorata. Com’è possibile che una figura tanto brillante, che ha lasciato un segno nel giornalismo americano, sia stata quasi dimenticata? Più scavo nella sua storia, più capisco che Dorothy Kilgallen non è solo una giornalista, è una forza della natura.
Negli anni ’40, ’50 e ’60, mentre il giornalismo è dominato dagli uomini, lei si impone con talento e determinazione. Non è una semplice cronista, né una giornalista di gossip come Louella Parsons o Hedda Hopper. È una giornalista d’assalto, una pioniera dell’inchiesta, capace di passare dalla copertura dei più grandi processi della storia alle interviste con i potenti, dalle indagini nel mondo dello spettacolo ai misteri che mettono in pericolo la sua stessa vita.
Non racconta solo i fatti: li smonta, li ricostruisce, li analizza con la meticolosità di un detective. Ha un coraggio fuori dal comune e una scrittura capace di trasformare un processo in un dramma teatrale, un crimine in un noir, un’intervista in un interrogatorio serrato. Se fosse nata oggi, avrebbe il podcast true crime più seguito d’America.
Ma essere una donna di successo in un mondo di uomini non è facile. Dorothy si fa strada senza paura, ma si fa anche molti nemici. Politici, attori, gangster, capi dell’FBI. Scrive quello che scopre, senza filtri. E questo, alla fine, potrebbe averla uccisa.
Nessun giornalista ha osato tanto come lei nel mettere in discussione la versione ufficiale sull’assassinio di Kennedy. È l’unica a ottenere un’intervista con Jack Ruby, l’uomo che ha sparato a Lee Harvey Oswald prima che potesse parlare. Dice di avere in mano prove che avrebbero cambiato la storia. Poche settimane dopo, a soli 52 anni, viene trovata morta nel suo letto. Una combinazione letale di barbiturici e alcol. La sua inchiesta su JFK sparisce nel nulla.
La storia ufficiale parla di overdose accidentale, ma troppe domande sono rimaste senza risposta. Chi aveva interesse a farla tacere? Perché i suoi documenti sono scomparsi? E soprattutto: cosa sapeva davvero Dorothy Kilgallen?
Ci sono storie che il tempo prova a seppellire, ma che meritano di essere raccontate. Dorothy Kilgallen ha sfidato il potere con la forza delle sue parole, fino a quando qualcuno ha provato a farla tacere per sempre. Eppure, la sua voce non è scomparsa. Oggi più che mai, vale la pena riportarla alla luce.
Inchiostro nel sangue
Dorothy Mae Kilgallen nasce il 13 luglio 1913 a Chicago. Suo padre James "Jim" Kilgallen, di origine irlandese, è un reporter della catena di giornali Hearst, un uomo che si muove con sicurezza tra le redazioni, le aule di tribunale e i corridoi del potere. Negli anni a venire, intervisterà personaggi del calibro di Thomas Edison e Al Capone, coprirà i grandi processi americani e sarà tra i primi a documentare l’esistenza del campo di concentramento di Dachau durante la Seconda guerra mondiale.
Dorothy cresce ascoltando le sue storie, imparando in fretta che il giornalismo è molto più di un mestiere: è un’ossessione per la verità. Quando ha appena 8 anni, annuncia ai genitori che da grande sarà una reporter, proprio come suo padre. Non è un sogno infantile passeggero, ma una decisione. E Jim Kilgallen lo capisce subito: sua figlia ha già quella scintilla che distingue un semplice cronista da un giornalista nato.
Sua madre, Mae, è più scettica. Dorothy è una bambina brillante, ma il giornalismo è un ambiente duro, fatto di uomini spietati e lunghe ore in redazione. Meglio un lavoro più sicuro, magari da insegnante. Ma la piccola Dorothy ha già la mente proiettata altrove.
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La seconda in alto a destra |
A 12 anni scrive la sua prima lettera a un giornale, il Brooklyn Eagle. Non è una richiesta d’aiuto né un’ingenuità adolescenziale, ma un’argomentata difesa del suo attore preferito, Ramon Novarro, criticato ingiustamente da un lettore. Il testo è così maturo che l’editore pensa sia stato scritto da un adulto. Quando scopre che dietro le parole c’è una ragazzina che ha firmato con lo pseudonimo “Dorothy Laurington”, decide di pubblicarla.
Da quel momento, è chiaro a tutti: Dorothy Kilgallen non è una bambina qualsiasi. È nata per scrivere, per raccontare il mondo. E non ha alcuna intenzione di aspettare per cominciare.
A scuola, Dorothy Kilgallen eccelle nella scrittura. Diventa associate editor di The Erasmian, la rivista letteraria dell’Erasmus Hall High School, e si distingue per il suo talento nel selezionare e migliorare gli articoli. Ma il suo vero apprendistato non avviene tra i banchi di scuola. Accanto a lei c’è un maestro d’eccezione: suo padre. Dorothy trascorre ore nella redazione del New York Journal-American, dove Jim Kilgallen lavora come cronista. Osserva i giornalisti discutere, raccogliere informazioni, redigere articoli con precisione chirurgica. Ascolta i racconti sui grandi processi, sulle faide politiche, sulle interviste ai personaggi più influenti del tempo. Respira quell’ambiente e capisce che è lì che vuole stare.
Intanto, il mondo fuori sta cambiando. Nel luglio del 1929, mentre il caldo soffoca Brooklyn, la borsa sta per crollare. Jim Kilgallen, per fortuna, non ha investimenti finanziari e riesce a mantenere il suo posto, ma attorno a Dorothy si consuma un dramma silenzioso. Le famiglie crollano sotto il peso della crisi, la povertà inizia a diffondersi come un’ombra. Sono immagini che si imprimono nella sua mente. Lei osserva, registra, impara.
Nel 1930, Dorothy si iscrive al College of New Rochelle, un istituto cattolico gestito dalle suore orsoline. È brillante, distinta, con un’ironia tagliente che conquista chiunque la conosca. Ma le lezioni le stanno strette. Mentre le altre ragazze studiano per diventare insegnanti o segretarie, lei sente che il suo futuro è altrove.
L’occasione arriva nel 1931. Ha appena 18 anni quando Amater Spiro, city editor del New York Evening Journal, le concede una possibilità: due settimane di prova in redazione. È un favore al padre più che una reale fiducia nelle sue capacità. Ma Dorothy non ha bisogno di favoritismi. Dopo pochi giorni è evidente che non è lì per giocare. Scrive con precisione, ha uno stile incisivo, riesce a cogliere dettagli che sfuggono agli altri. Quando le due settimane finiscono, la decisione è già presa: quella non è una fase passeggera, è l’inizio della sua carriera.
Professione Reporter
Non è facile farsi strada in un ambiente dominato dagli uomini. Le prime assegnazioni sono noiose, articoli di costume e notizie locali di poco conto. Ma Dorothy non è come le altre giovani reporter che accettano passivamente gli incarichi minori. Il suo interesse è altrove: nei tribunali, nelle aule dove si decidono destini, nei processi che rivelano la natura più oscura dell’essere umano.
Ogni giorno, mentre gli altri cercano di evitare gli incarichi giudiziari, lei si siede tra il pubblico delle aule di tribunale, ascolta ogni parola, osserva ogni espressione. Non si limita a raccontare i fatti: vuole capire cosa si nasconde dietro una testimonianza incerta, dietro uno sguardo sfuggente dell’imputato, dietro la strategia di un avvocato.
La redazione si accorge del suo talento. E quando arriva il caso del secolo, è lei che mandano in aula.
Nel 1935, Dorothy Kilgallen è tra i reporter che seguono il processo a Bruno Hauptmann, l’uomo accusato di aver rapito e ucciso il figlio di Charles Lindbergh. Il caso ha sconvolto l’America: il piccolo Charles Jr., di appena 20 mesi, è stato sottratto dalla sua culla nella residenza della famiglia Lindbergh nel New Jersey. Dopo settimane di trattative e pagamenti di riscatto, il bambino è stato ritrovato senza vita, sepolto in un bosco non lontano da casa.
I giornalisti si accalcano in aula, le prime pagine dei quotidiani sono dominate da titoli a caratteri cubitali. E tra loro c’è una giovane reporter con uno sguardo attento e una scrittura che inchioda il lettore. Dorothy Kilgallen non si limita a descrivere ciò che accade, lo rende vivo.
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Dorothy seduta proprio dietro a Hauptmann che sta parlando con il suo avvocato |
Negli anni successivi, il New York Journal-American la spinge verso un altro tipo di giornalismo: le affidano la rubrica di spettacolo "Hollywood Scene", in cui deve mescolare intrattenimento e attualità. Ma Dorothy non è fatta per stare dietro una scrivania a scrivere di star del cinema. Ha bisogno di qualcosa di più, di un’avventura vera.
Nel 1936, convince il suo capo a iscriverla alla Race Around the World, una competizione tra giornalisti per circumnavigare il globo usando solo mezzi di trasporto pubblici. Nessuna donna ci ha mai provato prima. Vola sul dirigibile Hindenburg, attraversa il Pacifico con il China Clipper della Pan Am, prende treni, navi, autobus. Viaggia in condizioni estreme, affronta ritardi, fusi orari, difficoltà logistiche. Ma non si ferma. Dopo 24 giorni, 13 ore e 51 minuti, completa il giro del mondo, stabilendo un record. È la prima donna ad attraversare il Pacifico con un volo commerciale. L’America intera parla di lei. Eleanor Roosevelt le scrive per congratularsi, Amelia Earhart la elogia per il suo coraggio. Dorothy racconta la sua impresa nel libro "Girl Around the World", e Hollywood ne trae ispirazione per il film Fly Away Baby (1937). Ha solo 23 anni ma già una star.
Dopo il successo del suo libro, torna al giornalismo con ancora più determinazione. La sua scrittura è ormai riconoscibile: analitica, brillante, pungente. La sua firma inizia a comparire con regolarità sulle pagine del New York Journal-American, dove continua a occuparsi di processi e cronaca, ma anche di spettacolo e costume.
Sul fronte privato la sua vita prende una svolta inaspettata. Il 6 aprile 1940, a 27 anni, sposa Richard Kollmar, attore e produttore teatrale. Kollmar ha talento e ambizione, ma non raggiunge mai il livello di successo della moglie. Dorothy mantiene il suo cognome da nubile, una scelta poco comune per l’epoca, segno della sua indipendenza professionale. Insieme avranno 3 figli: Richard, Jill e Kerry.
Nel 1945, Dorothy Kilgallen e suo marito Richard Kollmar diventano la coppia più ascoltata d’America. Il loro programma radiofonico, "Breakfast with Dorothy and Dick", debutta su WOR con una formula inedita: non una trasmissione formale, ma una chiacchierata rilassata, come se gli ascoltatori fossero ospiti a casa loro.
E in un certo senso, lo sono davvero. Il programma viene trasmesso direttamente dalla loro abitazione a Manhattan, spesso mentre sono ancora in pigiama, seduti al tavolo della colazione. Tra un sorso di caffè e un morso a un toast, Dorothy e Richard parlano di tutto: teatro, cinema, politica, scandali mondani e vita newyorkese. La loro alchimia funziona. Richard, con il suo stile affabile, dà un tono leggero alla conversazione, mentre Dorothy, con la sua arguzia tagliente e il suo senso critico, aggiunge un livello di profondità che distingue il programma dalle solite trasmissioni d’intrattenimento. È come sbirciare dietro le quinte della società mondana, ascoltando le opinioni di due insider che non hanno paura di dire quello che pensano. Gli sponsor fanno a gara per essere presenti nel programma, e Breakfast with Dorothy and Dick diventa uno degli appuntamenti radiofonici più seguiti d’America. Va in onda per ben 18 anni, dal 1945 al 1963, consolidando la figura di Dorothy non solo come giornalista d’assalto, ma anche come una delle voci più influenti del paese.
Negli anni ’50, la televisione americana è in piena espansione e alcuni programmi diventano appuntamenti imperdibili. Uno di questi è What’s My Line?, un game show raffinato in cui un gruppo di panelist bendati deve indovinare la professione di un concorrente attraverso domande a risposta sì o no. Il tono è elegante, lo humor sottile, e il cast fisso del programma contribuisce al suo enorme successo.
Dorothy Kilgallen entra a far parte del panel. Affianca l’attrice Arlene Francis, l’editore Bennett Cerf e un ospite a rotazione, sotto la conduzione impeccabile di John Charles Daly.
Il suo stile la distingue immediatamente. Dorothy non si limita a giocare: il suo approccio è metodico, la sua logica impeccabile. Fa domande precise, segue ogni indizio con attenzione, intuisce le risposte prima degli altri. La sua intelligenza brillante, unita a un’ironia sottile, la rende una delle preferite del pubblico.
Ma quello che più mi colpisce, ogni volta che la guardo, è quanto sia sempre preparata. Sa quali film sono usciti in settimana, quali spettacoli stanno trionfando a Broadway, le ultime indiscrezioni sulla vita privata delle star. Non solo ha un fiuto eccezionale per il gioco, ma possiede un’enciclopedia mentale dello spettacolo, costruita attraverso anni di letture, visioni e incontri. La preparazione, ve lo confesso, a cui ambisco io.
Il programma ospita le più grandi celebrità dell’epoca, da Frank Sinatra a Elizabeth Taylor, da Alfred Hitchcock a Walt Disney. Il pubblico si diverte a vedere le star cercare di sviare i panelist, e Dorothy è spesso tra le prime a smascherarli. What’s My Line? diventa un successo travolgente, rimanendo in onda per 15 anni, dal 1950 al 1965. Ogni domenica sera, milioni di americani si sintonizzano per vedere Dorothy Kilgallen mettere alla prova il suo intuito. In una puntata l'ospite da indovinare è stato suo padre. Vi lascio il video perchè è molto carino (è il primo concorrente).
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Questo servizio fotografico è stato realizzato dal fotografo Philippe Halsman |
Ma dietro il fascino televisivo, la sua vera carriera non si ferma. La donna elegante che intrattiene il pubblico la sera continua, di giorno, a seguire processi e a scrivere inchieste. Tra questi, il caso di Sam Sheppard, il medico accusato ingiustamente di aver ucciso la moglie, che ispirerà la serie e il film Il fuggitivo. Dorothy segue il processo da vicino e, al contrario di molti suoi colleghi, solleva dubbi sulla colpevolezza dell’imputato.
Ci vorranno anni prima che la giustizia gli dia ragione, ma Dorothy è tra le prime a intuire che dietro la condanna potrebbe nascondersi un errore giudiziario. La sua capacità di osservare oltre le versioni ufficiali è ormai il suo marchio di fabbrica. E presto, si troverà davanti al caso più grande della sua carriera.
Dorothy non è una giornalista che espone la propria ideologia politica, ma apprezza le persone di talento, le figure che sanno imporsi con intelligenza e determinazione. E Kennedy, con la sua brillante oratoria, la sua visione dinamica e la sua presenza carismatica, la colpisce più di molti altri.
Quando nel 1960 vince le elezioni presidenziali, Dorothy non è sorpresa. Più volte aveva scritto della sua abilità politica e della sua capacità di connettersi con il pubblico. Poco dopo l’insediamento, grazie all’amicizia con il Segretario della Stampa Presidenziale Pierre Salinger, Dorothy organizza una visita alla Casa Bianca per lei e suo figlio minore, Kerry. Durante il tour, JFK appare all’improvviso e li invita nello Studio Ovale, intrattenendosi con loro in una conversazione informale. Un momento prezioso, lontano dai riflettori della politica.

Ma Dorothy non è convinta.
Le immagini della sparatoria a Dealey Plaza mostrano qualcosa di strano: testimoni riferiscono di spari provenienti da più direzioni, e la dinamica dell’attentato sembra tutt’altro che chiara.
Più emergono dettagli, più la sua mente analitica inizia a lavorare. Possibile che un solo uomo, con un fucile a otturatore manuale, sia riuscito a sparare tre colpi così precisi in pochi secondi? E che l’intelligence non avesse alcun sospetto su di lui?
Il giorno dopo l’attentato, Dorothy contatta le sue fonti a Dallas. Vuole vederci chiaro. Ma nemmeno lei può immaginare quello che sta per accadere.
Il colpo di scena
Due giorni dopo l’assassinio di John F. Kennedy, mentre il paese assiste in diretta al trasferimento di Lee Harvey Oswald, accade qualcosa di inaudito.
Siamo nel seminterrato della centrale di polizia di Dallas, non un luogo aperto a tutti. Solo giornalisti accreditati e agenti dovrebbero avere accesso. All’improvviso, un uomo si fa largo tra la folla e spara a bruciapelo su Oswald.
Si chiama Jack Ruby, proprietario di un nightclub con legami con la mafia e amicizie nella polizia.
L’attimo viene immortalato da Robert H. Jackson, un fotografo dell’Associated Press, in uno scatto che vincerà il Premio Pulitzer. L’immagine è perfetta e surreale: Ruby con la pistola ancora puntata, Oswald che si contorce dal dolore, gli agenti che reagiscono con un attimo di ritardo.
Per il governo, il caso è chiuso. Per Dorothy Kilgallen, è appena iniziato. Perché Ruby era lì, armato, in una delle aree più sorvegliate di Dallas? Come ha potuto avvicinarsi così facilmente a Oswald?
Dorothy inizia a scavare. Scopre che Ruby ha connessioni dirette con la mafia, in particolare con Sam Giancana, Carlos Marcello e Mickey Cohen. Gli agenti della polizia di Dallas frequentano abitualmente il suo nightclub, The Carousel Club.
Una scelta inspiegabile. Belli non è un penalista, non ha esperienza nei processi per omicidio, e meno che mai in casi di pena capitale. Accanto a lui si affianca un altro avvocato, Joe H. Tonahill. Dorothy usa i suoi contatti a San Francisco per indagare. Scopre che Belli ha legami con la mafia: ha rappresentato Mickey Cohen, boss di Los Angeles, ed è stato l’avvocato di Candy Barr, una spogliarellista amica di Ruby e fidanzata di Cohen, proprio davanti allo stesso giudice che ora presiede il suo caso. Troppe coincidenze.
Il 29 novembre 1963, appena cinque giorni dopo la morte di Lee Harvey Oswald, il presidente Lyndon B. Johnson istituisce la Commissione Warren per indagare ufficialmente sull’assassinio di JFK. Il capo della Commissione è il Chief Justice Earl Warren, accompagnato da membri di peso come Gerald Ford (futuro presidente), Allen Dulles (ex direttore della CIA), Richard Russell e John Sherman Cooper.
Per Dorothy, c’è qualcosa che non torna. “Perché la CIA ha un posto al tavolo? Perché J. Edgar Hoover si rifiuta di rilasciare alcuni documenti? Perché nessuno sta indagando davvero sui legami tra Ruby e il crimine organizzato?". Sin dai primi mesi, le sue perplessità si trasformano in accuse dirette.
Il processo
Nel frattempo, mentre la Commissione porta avanti la sua inchiesta, il processo di Jack Ruby inizia. Dorothy è a Dallas con una missione. Non vuole limitarsi a seguire il processo.
Vuole parlare direttamente con Jack Ruby. Ma c’è un ostacolo: Melvin Belli impedisce qualsiasi intervista. Dorothy però non si arrende. Cena con Belli all’Hotel Statler Hilton di Dallas e lo convince a concederle un incontro con Ruby. Sa che Belli è affascinato dal mondo dello spettacolo e sfrutta questo punto debole: gli promette contatti a Hollywood in cambio dell’intervista. La sua tattica funziona.
Il processo a Jack Ruby è iniziato da meno di una settimana quando Dorothy Kilgallen ottiene un colloquio esclusivo con lui. Si tratta di un incontro breve, di pochi minuti, ma sufficiente a darle un’impressione chiara del suo stato emotivo.
Il 23 febbraio 1964, pubblica un resoconto dettagliato sul Journal-American.
"I suoi occhi erano lucidi come quelli di una bambola di vetro. Cercava di sorridere, ma il suo sorriso era un fallimento. Quando gli strinsi la mano, tremava appena, come il battito d’ali di un uccello."
Ruby le confida di essere terrorizzato.
L’intervista è un colpo giornalistico clamoroso. Dorothy è l’unica ad aver parlato con Ruby lontano dalle telecamere e senza il controllo degli avvocati.
Quello che sta accadendo in aula è altrettanto sorprendente. Melvin Belli, l’avvocato difensore di Ruby, punta tutto su una strategia rischiosa: dimostrare che il suo assistito non era nel pieno delle sue facoltà mentali al momento del delitto. Secondo i medici della difesa, Ruby avrebbe agito in stato alterato, vittima di un episodio di epilessia psicomotoria, un disturbo neurologico che avrebbe annullato la sua capacità di intendere e volere. Il suo obiettivo? Evitare la pena di morte, facendolo dichiarare non colpevole per infermità mentale. Ma Ruby non è d’accordo. Chiede di testimoniare in aula per spiegare che non è folle, ma Belli glielo impedisce, preferisce che siano i medici a parlare al suo posto perchè lui potrebbe compromettersi.
Dorothy è determinata ad ottenere un altro incontro con Ruby e così si avvicina al giudice Joe Brown per chiedere il permesso di intervistarlo in privato. Brown, che è un suo grande ammiratore, si lascia convincere e le concede il permesso, non prima di averle chiesto un autografo. Questa volta, il colloquio è più breve. Pochi minuti di conversazione, ma abbastanza per lasciarle un’impressione ancora più netta: Ruby appare scosso, fisicamente provato, le mani tremanti. Qualcosa lo tormenta.
Kilgallen lascia la stanza con una certezza: Jack Ruby non è solo un uomo che ha agito per impulso. C’è di più, qualcosa che lui stesso fatica a spiegare, e che forse non potrà mai dire.
Il 14 marzo 1964 la giuria pronuncia il suo verdetto: Jack Ruby è colpevole di omicidio premeditato ed è condannato a morte. Il processo peró non è ancora finito. La sua difesa prepara subito il ricorso in appello, sostenendo che il processo non si sarebbe dovuto svolgere a Dallas, dove l’opinione pubblica era già schierata contro di lui.
Il caso è chiuso
Il 7 giugno 1964, tre mesi dopo la condanna di Ruby, la Commissione Warren decide finalmente di interrogarlo. Ma l’incontro non avviene in aula, né in una sede ufficiale, bensì nella sua cella, lontano dalle telecamere. Dorothy sa che è un’occasione decisiva per ottenere risposte, ma non ripone alcuna fiducia nel modo in cui la Commissione sta gestendo il caso.
Le sue previsioni si rivelano esatte. L’interrogatorio è superficiale, inconcludente. Ruby appare visibilmente provato, ansioso, e ripete più volte di temere per la propria vita. Chiede alla Commissione di essere trasferito a Washington, convinto che solo lontano da Dallas potrà parlare liberamente. Ma la richiesta viene ignorata.
Ancora una volta, nessuno approfondisce le domande più cruciali. Non si indaga sui suoi legami con la mafia. Non gli viene chiesto come abbia avuto accesso alla centrale di polizia con un’arma carica. Non gli viene domandato chi potrebbe avergli dato istruzioni per uccidere Oswald.
Dorothy è furiosa. È la prova definitiva che la Commissione non vuole realmente arrivare alla verità.
Poche settimane dopo, la sua determinazione la porta a ottenere uno scoop straordinario.
Pubblica in esclusiva estratti dell’interrogatorio di Ruby, documenti non ancora divulgati ufficialmente. È l’unica giornalista a riuscire nell’impresa. Il suo articolo solleva immediatamente scalpore.
"Questa non è un’inchiesta, è una messinscena per confermare la versione ufficiale stabilita sin dal primo giorno."
Nel settembre 1964, viene pubblicato il rapporto finale della Commissione Warren.
Il verdetto ufficiale è definitivo: Lee Harvey Oswald ha agito da solo. Jack Ruby ha ucciso Oswald per impulso, senza alcun complotto. Non c’è stata cospirazione. Nessun legame tra Oswald e Ruby. Nessun secondo tiratore.
Il caso è chiuso.
Dorothy legge il rapporto con sdegno. Non una sola parola sulla criminalità organizzata. Nessun approfondimento sui legami tra Ruby e Sam Giancana, Carlos Marcello e Mickey Cohen. Niente che possa far pensare che Ruby non abbia agito per semplice vendetta impulsiva. Lei non ci crede.
Nel suo spazio sul Journal-American, continua a sfidare la versione ufficiale con una serie di articoli durissimi. Non smette di sollevare domande, di cercare prove, di mettere in dubbio il lavoro della Commissione.
L'ultima notte di Dorothy
La sera del 7 novembre 1965, Dorothy Kilgallen partecipa alla registrazione del consueto episodio di What’s My Line?. Nulla lascia presagire che sarà l’ultima volta che il pubblico la vedrà.
Dopo la trasmissione, poco dopo le 23:00, lascia gli studi e si dirige con Bob Bach, produttore del programma, al P.J. Clarke’s, un locale di Manhattan. Ordina un vodka tonic, il suo drink abituale. A mezzanotte, si congeda dall’amico. «Ho un appuntamento tardivo», gli dice, senza specificare altro. Bach la accompagna fino alla limousine e la osserva allontanarsi nella notte.
Un’ora dopo, viene vista entrare nel bar del Regency Hotel. Si siede in un angolo appartato. Il pianista, Kurt Maier, ricorderà di averla notata ancora lì alle due del mattino, in compagnia di un uomo mai identificato.
Poche ore dopo, Dorothy Kilgallen viene trovata morta nella sua casa di East 68th Street. La notizia compare nel Journal-American il pomeriggio dell’8 novembre. Inizialmente si parla di infarto, poi la versione cambia: overdose accidentale di barbiturici e alcol. Ma qualcosa non torna.
Dorothy non viene trovata nella sua camera da letto abituale, ma in una stanza che, secondo amici e domestici, non usava da anni. Era una camera di rappresentanza, allestita per dare l’impressione che lei e il marito dormissero insieme, quando in realtà da tempo avevano vite separate.
Anche il suo aspetto non è quello di una donna che si è appena addormentata. Indossa una vestaglia, una camicia da notte elegante e un bolerino sopra (di solito dormiva in pigiama con calzettoni). È truccata, con le ciglia finte ancora applicate e un parrucchino ben sistemato tra i capelli. Chi la conosceva bene, come il parrucchiere Marc Sinclaire – l’uomo che la trova senza vita – sa che Dorothy non sarebbe mai andata a dormire senza prima struccarsi completamente e togliere il posticcio.
L’aria condizionata della stanza è accesa al massimo, nonostante sia novembre a New York. Dorothy soffriva il freddo ed era nota per tenere il riscaldamento alto nei mesi autunnali e invernali. Perché qualcuno avrebbe dovuto lasciarla accesa?
Un dettaglio che insinua un’ipotesi inquietante: raffreddare il corpo per ritardare la determinazione esatta dell’orario della morte.
Accanto a lei, sul letto, viene trovato un libro aperto, con la luce da lettura ancora accesa. Ma i suoi occhiali da vista non ci sono. Eppure, senza, non avrebbe potuto leggere nemmeno una riga. Sinclaire confermerà che quel libro lo aveva già letto da tempo e che glielo aveva persino commentato.
Sul comodino vengono trovati due bicchieri da drink, con resti di vodka e medicinali. La struttura della casa, con i suoi cinque piani, avrebbe permesso a un eventuale accompagnatore di entrare e uscire senza essere notato dagli altri presenti: il marito, il figlio minore, la cameriera e il maggiordomo. L’ipotesi che non fosse sola quando è rientrata si fa sempre più plausibile.
Le analisi chimiche rivelano la presenza di pentobarbital (Nembutal) in almeno un bicchiere, un barbiturico che Dorothy non assumeva abitualmente. Il farmaco potrebbe esserle stato sciolto nella bevanda – un classico “Mickey Finn”, ovvero un cocktail drogato. Oltre al Nembutal, nel suo sangue vengono trovate Seconal e Tuinal, una combinazione letale.
Se fosse stata un’overdose accidentale, avrebbe dovuto ingerire volontariamente una quantità letale di barbiturici che superava di gran lunga la dose a cui era abituata. Un suicidio? Niente lo lascia intendere.
Ma la vera domanda è un’altra: dov’è finito il fascicolo privato che Dorothy stava raccogliendo sull’assassinio di Kennedy? Le sue carte sono scomparse nel nulla.
Le autorità archiviano il caso in fretta. Il medico legale, inizialmente, non è in grado di determinare con certezza la causa della morte e annota che sono necessari ulteriori accertamenti. Ma tre settimane dopo, il referto definitivo parla di intossicazione acuta da barbiturici e alcol, con la postilla: “circostanze indeterminate.”
Era una formula che lasciava più dubbi che certezze. Qualcosa non torna. Ma nessuno sembra voler approfondire.
John Daly il 14 novembre apre così la prima puntata di What's my line senza Dorothy.
"Questi sono giorni tristi per noi, come sono certo lo siano per tutti coloro che hanno appreso della scomparsa di Dorothy Kilgallen lunedì scorso. Dorothy, Arlene, Bennett ed io siamo stati insieme la domenica per gran parte di 16 anni. (...) Abbiamo riflettuto su cosa potessimo fare per esprimere il nostro senso di perdita e rendere un tributo speciale a Dorothy e, alla fine, siamo stati d'accordo con il suo caro marito, Dick Kollmar, che il miglior omaggio a Dorothy sarebbe stato fare What's My Line? esattamente come lo facevamo quando lei era qui. Ed è proprio quello che cercheremo di fare."
Nel dicembre 1966, mentre attende il nuovo processo, Jack Ruby viene trasferito d’urgenza in ospedale. Gli viene diagnosticato un cancro ai polmoni in fase terminale. Il 3 gennaio 1967, muore per un'embolia polmonare. Non testimonierà mai più. Non ci sarà mai un nuovo processo. Con la sua morte, molte domande rimarranno per sempre senza risposta.
E Dorothy Kilgallen, la giornalista che più di tutti aveva cercato la verità, non sarà lì per raccontarlo.
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