Il Dakota Building, il palazzo leggendario dove ha vissuto Lauren Bacall
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"Vedete quella finestra lassù? Lauren Bacall potrebbe essere proprio lì, in questo momento."
New York, 2009. Il pullman del tour rallenta davanti a un edificio imponente, quasi fuori dal tempo. Il Dakota. La guida pronuncia quelle parole con naturalezza, ma io resto incantata, lo sguardo fisso su quelle finestre. Lauren Bacall. Non una star qualunque, ma una delle mie preferite, con quella voce roca e quello sguardo magnetico che rendeva impossibile distogliere gli occhi dallo schermo.
Poteva essere davvero lì, a pochi metri da me.
All’epoca amavo già il cinema classico, ma non avevo ancora frequentato il corso universitario che avrebbe trasformato quella passione in qualcosa di più profondo. Il mio blog, che oggi raccoglie tutto questo amore per il passato, era ancora lontano. Eppure, ho sempre avuto un debole per le storie degli edifici legati alle star, quei luoghi dove il tempo sembra essersi stratificato, dove ogni finestra potrebbe raccontare un pezzo di storia.
Qui hanno vissuto Lauren Bacall, Judy Holliday, Boris Karloff, Leonard Bernstein. Qui, negli anni ‘70, John Lennon e Yoko Ono avevano trovato rifugio dall’assedio della fama. Ed è proprio qui, sotto l’arco d’ingresso del Dakota, la sera dell’8 dicembre 1980, che John Lennon viene ucciso.
Ma il Dakota è molto più di questo. È un capolavoro architettonico, un esperimento sociale, un’icona che ha attratto artisti, musicisti, attori e scrittori come un magnete, offrendo loro un rifugio tra le sue mura spesse e silenziose.
Eppure, se questo edificio esiste, se è diventato un simbolo, lo si deve a un uomo d’affari visionario. E a qualcosa che con l’architettura non c’entra nulla.
Una macchina da cucire.
Tutto ha inizio ben lontano da New York, dall’architettura e dal mondo del lusso.
Siamo nel 1849 e in una stanza affollata di scartoffie, un avvocato di New York, Edward Clark, incontra un uomo dal volto segnato, lo sguardo febbrile di chi ha un’idea rivoluzionaria ma non i mezzi per portarla avanti. Isaac Merritt Singer.
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Clark ascolta con attenzione. Non è solo un avvocato, è un uomo d’affari. Vede oltre il problema.
Singer ha bisogno di denaro per combattere le sue battaglie legali. Clark ha una proposta: non lo pagherà in contanti, ma in quote della sua invenzione. Singer gli cede il 3/8 della sua macchina per cucire. È un accordo che cambierà tutto.
Nel 1851, Clark e Singer fondano la Singer Sewing Machine Company. La domanda esplode. Le vendite crescono anno dopo anno, ma il vero colpo di genio arriva nel 1856, quando Clark introduce il primo sistema di acquisto a rate negli Stati Uniti.
Fino a quel momento, solo le aziende potevano permettersi una macchina per cucire. Ora, anche una famiglia con pochi risparmi può averne una, pagando poco alla volta.
È una rivoluzione. Le vendite schizzano alle stelle. Nel 1880, la Singer vende mezzo milione di macchine all’anno.
Edward Clark è un uomo immensamente ricco. Ma non gli basta. Durante un viaggio in Europa, qualcosa attira la sua attenzione. Passeggiando per Parigi, rimane affascinato dallo stile di vita dei suoi abitanti. L’alta società non vive in case indipendenti, ma in eleganti appartamenti all’interno di maestosi palazzi residenziali. Un modo di abitare raffinato e moderno, che Clark non ha mai visto a New York.
E allora si chiede: perché i newyorkesi non dovrebbero vivere allo stesso modo?
Tornato in America, ha già la risposta e affida a un giovane architetto una missione ambiziosa: costruire un palazzo che cambi il volto di New York.
Un progetto ambizioso
È il 1860 e New York è in piena trasformazione. La costruzione di Central Park, iniziata nel 1857, è nata dall’esigenza di creare un grande spazio verde che offrisse ai newyorkesi un rifugio dalla frenesia urbana, proprio come i Bois de Boulogne a Parigi o Hyde Park a Londra. Questo ambizioso progetto ha dato impulso allo sviluppo edilizio della Upper East Side, dove hanno iniziato a sorgere residenze eleganti e strade ordinate. Il West Side, invece, è rimasto indietro.
Qui il terreno è più irregolare, mancano attrazioni capaci di richiamare l’alta società, e lungo il lato occidentale di Central Park ci sono ancora centinaia di lotti vuoti. Sembra una terra di nessuno. L’Upper West Side, in particolare, ospita solo alcune taverne, locande e pochi edifici sparsi. Nulla che lasci immaginare la sua futura trasformazione in uno dei quartieri più esclusivi della città.
Poi, nel 1879, tutto cambia. L’apertura della linea sopraelevata della Nona Avenue porta finalmente un collegamento rapido con Lower Manhattan. Il West Side diventa accessibile e, per chi sa guardare avanti, è un’occasione d’oro.
Edward Clark è uno di loro. Intuisce che il quartiere sta per esplodere e decide di scommettere su un progetto mai visto prima.
I lavori iniziano il 25 ottobre 1880. Costruire un edificio del genere, senza la tecnologia dell’acciaio strutturale che arriverà solo anni dopo, è una sfida titanica. Il Dakota prende forma mattone dopo mattone, sostenuto da mura di pietra massiccia, spesse fino a 120 cm nei livelli inferiori, che si assottigliano progressivamente man mano che salgono.
Il nome
Nel giugno del 1882, mentre il palazzo è ancora in costruzione, riceve ufficialmente il nome con cui passerà alla storia: The Dakota.
Nel corso degli anni è nata una leggenda: si dice che Clark abbia scelto questo nome perché all’epoca il Dakota era così lontano dal centro di Manhattan che tanto valeva essere nei Territori del Dakota. Ma è solo una storia inventata negli anni ’30 e ripetuta fino a sembrare vera.
La realtà è diversa. Clark amava quel nome. I Territori del Dakota, in quel periodo, rappresentavano l’ultima grande frontiera americana, una terra di nuove ricchezze e opportunità per imprenditori e pionieri. Per lui, quel nome significava futuro.
Edward Clark, però, non vedrà mai il Dakota completato. Nell’ottobre del 1882, a 71 anni, muore improvvisamente per un infarto, lasciando il progetto incompiuto. L’edificio verrà portato a termine due anni dopo, nel 1884, e sarà ereditato dal nipote dodicenne, Edward Severin Clark.
Quando il 27 ottobre 1884 il Dakota è finalmente pronto, nessuno più ride di quell’idea visionaria.
L’Upper West Side non è più un deserto. Il Dakota, con la sua imponente eleganza e il suo lusso senza precedenti, è diventato l’indirizzo più ambito di New York.
Quando i primi residenti del Dakota si trasferiscono nei loro appartamenti, la New York aristocratica li guarda con sufficienza. Non sono famiglie old money come i Vanderbilt, gli Astor, ma uomini d’affari, editori, imprenditori self-made che hanno costruito la loro fortuna senza ereditare titoli o privilegi. Snobbati dall’élite dell’Upper East Side, trovano nel Dakota non solo un rifugio, ma l’emblema di un nuovo tipo di prestigio: non più ereditato, ma conquistato.
Un castello a Manhattan
Se oggi lo si osserva da Central Park West, il Dakota sembra uscito direttamente da un’altra epoca. Un edificio imponente, con il suo profilo impenetrabile e la silhouette gotica che lo fa somigliare più a un palazzo europeo che a un condominio di lusso di New York. Un castello urbano, sospeso tra il Vecchio e il Nuovo Mondo.
Quando Henry Janeway Hardenbergh lo ha progettato, il concetto di appartamenti di lusso era ancora un’idea nuova. Il Dakota si sviluppa su più livelli e si affaccia su quattro lati liberi, occupando interamente l’isolato tra la 72ª e la 73ª strada, affacciato su Central Park West.
Il suo stile mescola influenze del Rinascimento tedesco, caratterizzato da proporzioni matematicamente bilanciate, l’uso di ordini classici e una ricerca di simmetria ed equilibrio. Ma la sua estetica include anche elementi neogotici, con abbaini, guglie e dettagli decorativi in ferro battuto.
Uno degli elementi più caratteristici del Dakota è il tetto, un insieme di spioventi inclinati, abbaini, camini decorati e torrette. Il rivestimento è in ardesia, mentre sporgono eleganti guglie ornamentali e comignoli in mattoni. In cima, svetta l’immancabile bandiera americana, come da tradizione per i monumenti nazionali.
La facciata è un gioco di colori e materiali. Il basamento è rivestito in arenaria, mentre il resto dell’edificio è realizzato in mattone color ocra, tranne sul lato ovest, dove si trova un mattone rosso più intenso. Gli elementi decorativi, come i fregi, sono in arenaria della Nuova Scozia e terracotta. Questo contrasto cromatico è stato studiato per ammorbidire il gioco di ombre e rendere la struttura visivamente più leggera.L’accesso al Dakota avviene attraverso il suo scenografico ingresso sulla 72ª strada, un portale che ricorda l'entrata di una fortezza. Un grande arco ribassato, decorato con dettagli scolpiti, introduce al port-cochère, un passaggio coperto con volte a crociera che consentiva alle carrozze trainate da cavalli di entrare nel cortile e far scendere i passeggeri comodamente, al riparo dal vento e dalla pioggia.
A chiudere l’accesso, un maestoso cancello in ferro battuto, mentre ai lati dell’arco si trovano lanterne a gas in ferro battuto, che un tempo illuminavano l’ingresso con una luce soffusa, creando un’atmosfera quasi teatrale.
A sinistra dell’ingresso, si trova una cabina della guardia in bronzo. Ancora oggi, dopo la mezzanotte, l’accesso all’edificio è strettamente controllato: residenti e visitatori devono suonare il campanello della sicurezza per entrare.
Osservando verso l’ottavo piano, si nota una scultura raffigurante il volto di un nativo Dakota, sormontata dall'incisione "1881", la data della costruzione.
Dopo aver varcato il cancello sulla destra si trova un piccolo ufficio di sicurezza, dove i residenti possono ritirare pacchi e registrare ospiti. Questo spazio non è concepito come una sala d’attesa, ma come un punto di controllo discreto, dove i visitatori vengono annunciati ai proprietari, garantendo massima privacy e sicurezza.
Poi si accede al cortile centrale, un'area privata che ha sempre svolto una doppia funzione: garantire luce e ventilazione agli appartamenti e fungere da spazio sociale per i residenti.
Nel tempo, il cortile ha ospitato feste esclusive, eventi privati e persino concerti natalizi, rimanendo uno dei luoghi più affascinanti del Dakota. Un tempo, al centro del cortile erano presenti due fontane, che avevano anche una funzione pratica: servivano da lucernari per il piano interrato.
A differenza della maggior parte dei palazzi dell’epoca, il Dakota non ha una lobby centrale. Gli appartamenti si raggiungono attraverso quattro lobby separate, situate in ciascuno dei quattro angoli del cortile. Ogni lobby è un piccolo spazio raffinato, con pareti in legno, scale in marmo e legno e dettagli decorativi originali.
Ed è qui che troviamo uno degli elementi più innovativi dell’epoca: gli ascensori. Il Dakota è stato tra i primi edifici residenziali di New York a dotarsi di ascensori, un lusso straordinario per l’epoca. Ma c'era un problema: alla fine dell’800, Central Park West non aveva ancora elettricità, il che rendeva impossibile l’installazione di ascensori in molti edifici della zona.
Il Dakota ha risolto la questione in modo visionario: ha costruito un proprio impianto elettrico privato, rendendosi completamente indipendente dalla rete cittadina, ben prima che la città installasse le condutture elettriche nel 1896.
Gli ascensori originali, costruiti in mogano e ferro battuto, sono ancora oggi in funzione, e ogni lobby ne ospita uno, insieme a una scala che collega gli appartamenti.
Un ristorante esclusivo
Vivere al Dakota, nei primi decenni dopo la sua inaugurazione, significava avere accesso a un livello di servizio che andava ben oltre quello di una semplice residenza di lusso. Tra i comfort più esclusivi c’era un ristorante privato, situato al piano terreno sul lato sinistro dell’edificio, affacciato su Central Park. Non ci sono fotografie ma dalla pianta originale dell'edificio si può vedere nell'angolo in basso a destra.
Non tutti gli appartamenti erano dotati di cucina, e molti residenti preferivano non impiegare la propria servitù per la preparazione dei pasti. Per questo, il Dakota offriva una soluzione all’avanguardia: uno staff di 150 persone tra chef, camerieri e personale di servizio garantiva un’esperienza culinaria impeccabile.
L’accesso al ristorante avveniva attraverso una piccola sala d’attesa, decorata con quadri e fiori freschi, che introduceva a un raffinato caffè e a una grande sala da pranzo, lunga circa 29 metri e larga 7,6, rivestita con pannelli di quercia e dominata da un grande camino. Oltre alla sala principale, esistevano anche due piccole sale da pranzo private, riservate ai residenti che desideravano ricevere ospiti senza doverli accogliere nel proprio appartamento.
Ogni giorno, i menu venivano stampati su lino e infilati sotto le porte degli appartamenti, permettendo ai residenti di scegliere se ordinare le pietanze da consumare in casa o riservare un tavolo. Da un documento ritrovato sappiamo che un pasto completo nel 1907 costava un 1 dollaro e cinquanta centesimi, l’equivalente di circa cinquanta euro di oggi.
Il ristorante è rimasto in funzione fino alla metà degli anni Cinquanta, quando il Dakota è stato trasformato in una cooperativa residenziale. Con questa nuova gestione, i residenti hanno deciso di chiudere il ristorante e riconvertirlo in un unico appartamento.
Lauren Bacall
Dopo la morte di Bogart, Lauren ha bisogno di un nuovo inizio. Lascia Hollywood per trasferirsi a New York, la città in cui è nata e che ha sempre sentito sua. Qui trova la sua nuova casa nel Dakota, in un appartamento che sarebbe diventato il suo rifugio per oltre cinquant'anni. Un luogo che rifletteva perfettamente il suo spirito sofisticato, indipendente e appassionato d’arte.
Quando Lauren Bacall arriva a New York, il Dakota è ancora una proprietà privata, ma la situazione sta per cambiare. Nel 1960, il nipote di Edward C. Clark, ultimo erede della famiglia che possedeva l’edificio, muore, aprendo la strada a una svolta epocale: gli inquilini che sono in affitto si organizzano per acquistare l’intero palazzo e trasformarlo in una co-op.
A differenza di un condominio, dove si acquista la proprietà dell’appartamento, in una co-op si possiedono azioni della società che gestisce l’edificio, con il diritto di risiedere nell’unità assegnata. Ma c’è un dettaglio non da poco: chi vuole trasferirsi al Dakota deve ottenere l’approvazione del consiglio della cooperativa, un gruppo di residenti che valuta ogni nuovo acquirente con criteri selettivi.
Bacall non perde tempo: è tra i primi ad acquistare il suo appartamento e pare abbia speso l’equivalente di mezzo milione di dollari dell’epoca, una cifra considerevole per il tempo. Ci resterà per tutta la sua vita, compresi gli anni del matrimonio con l’attore Jason Robards (dal 1961 al 1969).
Dopo oltre cinquant’anni di vita in questo splendido appartamento, alla sua morte nel 2014, la proprietà viene venduta per 21 milioni di dollari.
Potevo forse lasciarvi con la curiosità di sapere com’era fatto l’appartamento? Ovviamente no, perciò lasciate che vi porti a fare un piccolo tour.
L'appartamento di Lauren Bacall
Saliamo al quarto piano, più precisamente all’appartamento numero 43. Appena varcata la soglia, si accede a un vestibolo privato in mogano, che introduce all’ingresso, un ambiente accogliente e sofisticato. Sul lato destro, un camino originale in ghisa regala un’atmosfera calda e intima, mentre sopra la mensola, una selezione di stampe e dipinti racconta il gusto eclettico dell’attrice.
Accanto alla porta d’ingresso, un portaombrelli in metallo e legno raccoglie una curiosa collezione di bastoni da passeggio con manici intagliati a forma di cani e gatti, un dettaglio che ci svela fin da subito la passione di Bacall per gli oggetti unici.
Da qui si apre un lungo corridoio, le pareti punteggiate da quadri, sculture e oggetti raccolti nel corso di una vita. Ma prima di proseguire, spostiamoci a sinistra: qui si trova la libreria, uno degli spazi più affascinanti della casa.
Le pareti rivestite di librerie in legno scuro ospitano volumi di ogni genere, fotografie e oggetti cari all’attrice, al centro della stanza, un divano bianco e verde, con poltrone abbinate, crea un angolo perfetto per la lettura. Ma il vero protagonista è il grande finestrone a tutta altezza, che si affaccia su Central Park e conduce a un balconcino alla francese, un dettaglio raro e prezioso, mentre sulla parete opposta, c’è un camino in legno scolpito.
Ci spostiamo nella pièce de résistance, nel grande salone, la stanza più ampia e luminosa della casa. Le porte francesi si aprono su una distesa di pareti color acquamarina, una scelta insolita che rende l’ambiente fresco e raffinato.Al centro, il camino in legno scuro aggiunge un tocco di calore, mentre i due grandi finestroni affacciati su Central Park inondano la stanza di luce naturale. Il soffitto alto amplifica la sensazione di spazio, e le porte in mogano creano un contrasto elegante con la palette chiara della stanza.
L’arredamento è un mix di stili: poltrone imbottite, un divano dalle linee classiche, un pianoforte e una chaise longue per il relax. Ovunque, statue, quadri e tappeti pregiati, riflesso del gusto sofisticato di Bacall.
Una coppia di porte scorrevoli conduce alla sala da pranzo. Il tavolo centrale, imponente e circondato da sedie in legno scuro, è illuminato dalla luce soffusa delle candele, sempre presenti nella stanza, e da un lampadario antico che diffonde un bagliore caldo.
Lungo le pareti, il rivestimento in legno crea un contrasto elegante con le tonalità chiare delle pareti. Nell’angolo, un raffinato china closet ospita porcellane e cristalli, alcuni dei quali appartenuti a Bacall per decenni. Una porta a battente conduce alla butler’s pantry, la dispensa originale dell’appartamento, dove venivano preparati i pasti e conservate le stoviglie di pregio.
A dare carattere alla sala è anche la collezione di oggetti decorativi: candelabri d’epoca, vasi colmi di piante e un’opera di Jules Chéret, il celebre poster delle Pastilles Géraudel, che aggiunge un tocco di vivacità e richiama la Parigi della Belle Époque (insieme ad altre stampe simili sparse per la casa).
Le finestre della sala si affacciano sul cortile interno del Dakota, un angolo silenzioso che contrasta con la frenesia di New York, rendendo questo spazio ancora più intimo e raccolto.
La camera padronale è un santuario di calma e raffinatezza, dominato da tonalità delicate e tessuti morbidi. Il letto, avvolto in soffice biancheria color cipria, è posizionato strategicamente davanti a un’ampia finestra a bovindo, che incornicia una vista mozzafiato su Central Park.
Sopra di lei, a illuminare l’ambiente con un tocco teatrale, pende un birdcage chandelier, un lampadario dalla struttura a gabbia che aggiunge un fascino vintage alla stanza. Ai lati del letto, morbide chaise longues offrono un angolo perfetto per la lettura o per ammirare il panorama, mentre un grande walk-in closet custodisce una collezione di abiti che raccontano una vita vissuta sotto i riflettori.
Ad arricchire ulteriormente la stanza, un camino in legno scuro contribuisce a creare un’atmosfera intima, il luogo perfetto per rifugiarsi nelle fredde serate newyorkesi.
Dalla camera padronale si accede direttamente a uno studio privato, uno spazio intimo e riservato dove Bacall amava leggere, scrivere e collezionare opere d’arte.
Proseguendo, troviamo una seconda camera da letto che spezza il tono classico dell’appartamento: le pareti, in un giallo dorato acceso, creano un ambiente vivace e inaspettato. Qui, una selezione di opere d’arte culturali e oggetti esotici raccontano un gusto eclettico e curioso.
Gli oggetti più curiosi
I pezzi in stile Black Forest, un genere di mobili e sculture in legno intagliato nato nel XIX secolo tra Svizzera e Germania. Questo stile si distingue per le sue decorazioni elaborate che spesso raffigurano animali della foresta, come orsi, cervi e volpi, oltre a rami intrecciati e foglie di quercia. Nella sua casa al Dakota, Bacall aveva scelto elementi di questo stile per creare un ambiente caldo e accogliente, con dettagli che sembravano usciti da una baita di montagna, ma perfettamente in armonia con il suo appartamento newyorkese.
Ma anche quelli in stile Jacobean, un design britannico che risale al XVII secolo. Questo stile si caratterizza per le linee robuste, le gambe tornite e i dettagli intagliati con motivi geometrici e floreali. Qui la vediamo sulla duchesse brisée in legno di faggio Luigi XV con rivestimento in arazzo risalente a metà del XVIII secolo.
Bacall collezionava anche maioliche, soprattutto italiane e francesi, con le loro vivaci decorazioni smaltate e i motivi classici, ispirate al Rinascimento e alle scene mitologiche. Lauren Bacall non ha mai smesso di essere un’icona di Hollywood, e nel suo appartamento non mancavano dettagli che testimoniavano la sua carriera. Tra questi, alcune sedie da regista, il classico modello pieghevole in legno e tela, spesso personalizzato con il nome degli attori e registi (c’è quella utilizzata nel film L’amore ha due facce, uno dei miei preferiti, in cui è stata diretta da Barbra Streisand).
Poi diversi abiti (tra cui quello marrone di Yves Saint Laurent che ha indossato ritirando l’Oscar alla carriera nel 2009),
gioielli curiosi come la spilla di Elizabeth Gage con il cammello,
tante valigie, un baulone da viaggio Hartmann "Turn Table" Steamer Trunk, con le sue iniziali "H.D.B.", con scomparti per appendere gli abiti su un lato e cinque cassetti sull'altro; un tavolo da gioco appartenuto a Humphrey Bogart, realizzato in granito nero con inserti in ottone e struttura in ferro battuto.
L’oggetto che ho trovato più curioso è la casa degli spiriti tailandese in legno, una piccola struttura votiva ispirata alle tradizionali dimore della Thailandia. Secondo la credenza locale, queste case ospitano gli spiriti benevoli che proteggono la casa e i suoi abitanti. Chissà se Lauren Bacall l’aveva scelta come semplice elemento decorativo o se, in qualche modo, si lasciava affascinare dall’idea di un talismano protettivo nel suo appartamento.
Ma tra i tanti lotti, uno ha catturato la mia attenzione più di tutti.
Un filo invisibile tra Bogart, Bacall, Hepburn e Tracy
Ogni tanto mi imbatto in storie che sono vere strette al cuore. Sapevo che Lauren Bacall e Humphrey Bogart fossero grandi amici di Katharine Hepburn e Spencer Tracy, ma durante le ricerche di questo articolo ho scoperto qualcosa di ancora più commovente.
È la sera del 13 gennaio 1957. Katharine Hepburn e Tracy sono a casa dei Bogart e Spencer è seduto accanto al letto di Humphrey. Non servono parole. Entrambi sanno che questa è l’ultima volta che si vedranno. La malattia ha consumato Bogart, il suo spirito è ancora lì, ma il tempo sta per finire. Il giorno dopo, il grande Bogie se ne va per sempre.
Spostiamoci avanti nel tempo, fino all’agosto del 1981. Henry Fonda sta girando quello che sarà il suo ultimo film, Sul Lago Dorato (di questo film ve ne ho parlato qui), dove sul set cerca anche di ricucire un rapporto con la figlia Jane Fonda. La sua partner è proprio Katharine Hepburn, che il primo giorno di riprese gli fa un dono speciale: uno dei cappelli Fedora appartenuti a Spencer Tracy, quelli che lui considerava fortunati. Sul set, al suo fianco, c’è Katharine Hepburn. Il primo giorno di riprese, gli porge un cappello Fedora appartenuto a Spencer Tracy. Lo considerava un portafortuna. Henry lo indossa con orgoglio e decide di immortalare il gesto in un dipinto ad acquerello, ritraendo quel cappello e altri due che ha indossato nel film.
L’originale lo dona a Katharine. Poi ne fa realizzare 200 copie autografate per la troupe.
Ma qui il cerchio si chiude in un modo che non avrei mai immaginato…
Sfogliando il catalogo degli oggetti dell’appartamento di Lauren Bacall riconosco subito quel disegno. Leggo la didascalia ed arriva la conferma.
HENRY FONDA alias Norman Thayer, Jr., 1981 Litografia a colori su carta color crema, firmata a matita e numerata 177/200.
Non so come sia arrivato nelle mani di Bacall, ma il pensiero che quell’oggetto carico di storia sia finito nella sua collezione mi emoziona profondamente. Un legame invisibile tra amici, tra amori, tra stelle che hanno condiviso il palcoscenico della vita. Forse, in qualche modo, Spencer Tracy ha trovato il modo di arrivare fino al suo amico Bogart, anche dopo tanti anni.
Altri residenti famosi
Ma Lauren Bacall non è stata l’unica residente famosa del Dakota. Questo palazzo ha sempre esercitato un’attrazione magnetica sulle grandi personalità del mondo dello spettacolo, eppure, nel tempo, alcune storie si sono mescolate, generando curiosi malintesi. Uno dei più diffusi riguarda Judy Garland, che molti credono abbia vissuto nell’appartamento 77, al settimo piano. In realtà, quella casa è stata occupata dal 1953 al 1965 da un’altra Judy, la straordinaria Judy Holliday. Attrice brillante, vincitrice di un Oscar per Nata ieri, Holliday ha abitato nel Dakota fino alla sua morte prematura, a soli 43 anni, a causa di un tumore al seno.
Un altro nome che riecheggia tra queste mura è quello di Leonard Bernstein. Il grande compositore e direttore d’orchestra, autore di West Side Story, ha abitato nell’appartamento 23, al secondo piano. Qui ha trascorso anni intensi, circondato da libri, strumenti musicali e una raffinata collezione d’arte. La sua casa al Dakota è stata ricostruita fedelmente nel film Maestro di Bradley Cooper, che ha ottenuto un accesso speciale agli interni per documentare ogni dettaglio dell’architettura, dai caminetti agli alti soffitti, fino alle inconfondibili finestre ad arco. Grazie a questa meticolosa riproduzione, il film è riuscito a riportare in vita non solo la storia di Bernstein, ma anche l’atmosfera irripetibile del Dakota negli anni in cui il compositore lo chiamava casa.
Tra le figure più affascinanti che hanno abitato il Dakota c’è anche Boris Karloff, il volto leggendario di Frankenstein. Durante i suoi anni a Broadway, mentre incantava il pubblico nei panni di Capitan Uncino in Peter Pan—spettacolo con musiche composte proprio da Leonard Bernstein—Karloff viveva nell’appartamento all’ottavo piano, affacciato sul cortile interno. Un rifugio quasi monastico, isolato dal clamore della città, dove l’attore trovava riposo dopo le intense serate in scena.
Eccoci alla fine del nostro viaggio. Se ripenso a quel giorno del 2009 in cui mi sono trovata davanti al Dakota, non sapevo che un giorno avrei dedicato così tanto tempo a ricostruire le storie racchiuse tra quelle mura. Ma forse era inevitabile.
Perché non è solo il cinema ad affascinarmi, ma anche i luoghi che lo hanno ospitato. Gli edifici come questo, che non sono semplici strutture di mattoni e pietra, ma scrigni di vite vissute. Ogni finestra nasconde un frammento di storia, ogni corridoio ha visto passi celebri, ogni stanza ha custodito sogni e segreti. E dietro ognuno di questi luoghi, ci sono menti visionarie che li hanno resi possibili. Come Edward Clark, che ha immaginato un nuovo modo di abitare a New York, e chi ha saputo trasformare il Dakota in un’icona che resiste al tempo.
Rincorrere la storia di questo palazzo è stato come inseguire un riflesso in uno specchio antico: tra leggende, dettagli sfumati e racconti tramandati, il confine tra realtà e mito è sottile. Ma più scavavo, più sentivo il bisogno di trovare la verità, perché le storie, quelle vere, sono sempre le più affascinanti.
Il Dakota è molto più di un edificio. È un palcoscenico senza sipario, dove le epoche si sovrappongono e le voci del passato sembrano ancora riecheggiare tra le sue stanze.
Insomma, non è proprio dietro l’angolo, ma spero di avervi fatto respirare un po’ della sua magia.
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1 commenti
Sono sempre più allibita di non trovare commenti ai tuoi bellissimi articoli. Purtroppo ho una scarsa conoscenza di cinema perché mio marito non lo amava particolarmente (tranne alcuni film che avrebbe visto 100 volte.) Amo i blog, il tuo è spettacolare. Mi riprometto di cominciare dal primo articolalo presente su questo blog e di godermeli tutti. Li hai già proposti per un libro? Un grande abbraccio, Daniela
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