Shakerato, non mescolato. Viaggio nei drink dei film classici pt. 5 Speciali di Natale
venerdì, dicembre 13, 2024IMPORTANTE: Potete ascoltare questo articolo in formato audio. Su iPhone: aprite Safari, andate alla pagina dell’articolo, toccate AA nella barra indirizzi e scegliete “Ascolta pagina”. Su Android: aprite l’app Google o Google Chrome, aprite l’articolo, toccate i 3 puntini in alto a destra e poi “Ascolta la pagina”.
Non c’è niente di meglio, nelle fredde serate d’inverno, di una tazza bollente tra le mani. Può essere una cioccolata calda, un tè speziato… ma oggi parliamo di cocktail caldi. Quei drink fumanti e confortanti che sembrano fatti apposta per accompagnare una serata davanti al caminetto o per scaldarci dopo una passeggiata al freddo.
Se avete letto i miei articoli precedenti (li trovate qui), saprete già quanto mi affascini il mondo dei cocktail, nonostante la mia dichiarata astemia. Quello che mi conquista, come sempre, non è tanto il bicchiere, quanto la storia che si nasconde dietro ogni drink: chi l’ha inventato, perché sono stati scelti certi ingredienti, e come queste bevande hanno fatto il loro ingresso nella cultura e, naturalmente, nel cinema.
In questa tappa del nostro viaggio, ci immergeremo tra gli aromi speziati e le storie avvolgenti di alcuni cocktail caldi. Alcuni, come il Mulled Wine, ci riportano ai fasti dell’antica Roma, mentre altri, come l’Eggnog, erano talmente amati da finire nei diari personali di George Washington (anche se con una piccola dimenticanza nella ricetta!). E non mancheranno i collegamenti con il cinema: dal classico natalizio La vita è meravigliosa alla meno conosciuta ma incantevole Un sacco d’oro.
1) Irish Coffee
L’Irish Coffee nasce in una fredda notte d’inverno del 1943, nella cittadina irlandese di Foynes, un crocevia fondamentale per i voli transatlantici. Negli anni Quaranta, l’aeroporto di Foynes accoglie politici, scrittori e le più grandi star di Hollywood, in transito verso l’Europa.
In quella notte particolare, un idrovolante diretto a New York è costretto a tornare indietro a causa del maltempo. I passeggeri, stanchi e infreddoliti, trovano rifugio nel ristorante dell’aeroporto. Joe Sheridan, giovane chef del locale, osserva quelle persone tremanti e decide di creare qualcosa che non solo li scaldi, ma che infonda anche conforto.
Sheridan (in basso a destra nella foto qui accanto) mescola caffè bollente con una generosa dose di whiskey irlandese, dolcifica il tutto con zucchero e completa con un soffice strato di panna montata. Il risultato è un successo immediato. I passeggeri apprezzano il calore e il sapore unico di questa bevanda, che Sheridan propone subito al manager dell’aeroporto, Brendan O’Regan. Il cocktail viene inserito stabilmente nel menu del ristorante, diventando una specialità amata dai viaggiatori.
Quando l’aeroporto di Foynes chiude nel 1945, Sheridan si trasferisce al vicino aeroporto di Shannon, inaugurato nello stesso anno. Qui, continua a preparare l’Irish Coffee per una nuova generazione di passeggeri. Tra questi, nel 1956, ci sono anche Marilyn Monroe e Arthur Miller. La coppia, in viaggio verso l’Europa, fa tappa a Shannon e viene immortalata mentre sorseggia l’iconico cocktail. Questo momento contribuisce a rafforzare il legame dell’Irish Coffee con l’età d’oro di Hollywood e il suo fascino senza tempo.
Ma il viaggio del cocktail non si è fermato in Irlanda. Nel 1952, Stanton Delaplane, giornalista del San Francisco Chronicle, assaggia l’Irish Coffee a Shannon e ne rimane conquistato. Tornato a San Francisco, propone la ricetta al Buena Vista Café, ma riprodurla si rivela una sfida. La panna, elemento distintivo del drink, affonda continuamente nel caffè. Dopo numerosi esperimenti, il barista Jack Koeppler scopre che una panna leggermente invecchiata di 48 ore, montata con attenzione, garantisce lo strato perfetto.
Con questa tecnica, il Buena Vista inizia a servire l’Irish Coffee, e il successo è immediato. Ancora oggi, il locale ne serve migliaia di bicchieri al giorno, mantenendo viva la tradizione nata in una fredda notte irlandese.
Ma non è l’unico luogo legato alla storia di questo cocktail. A Los Angeles, il Tom Bergin's, storico pub di Hollywood, si guadagna il soprannome di The House of Irish Coffee. Frequentato da divi del cinema e leggende dell’età d’oro, questo locale contribuisce a rendere l’Irish Coffee un’icona anche in America (il locale con il soffitto tappezzato di quadrifogli, ve ne ho parlato qui).
Il nome
Quando un americano chiese a Joe Sheridan se quel caffè caldo con whiskey fosse brasiliano, il cuoco irlandese non esitò a rispondere con fierezza: "No, signore, è caffè irlandese!". E con questa battuta, pronunciata in una notte fredda all’aeroporto di Foynes, nacque il nome Irish Coffee. Il termine celebra l’anima della bevanda: il whiskey irlandese, ingrediente chiave, e il caffè caldo, che insieme creano una miscela capace di riscaldare chiunque.
La ricetta
5 cl di whiskey irlandese
12 cl di caffè caldo
5 cl di panna fresca leggermente montata (fredda)
1 cucchiaino di zucchero
Come viene servito
Per servire l’Irish Coffee, si utilizza un bicchiere apposito, noto come bicchiere Irish Coffee. Questo bicchiere ha una forma particolare: una base robusta e un gambo corto che permette di maneggiarlo comodamente, mantenendo il calore del cocktail e proteggendo le mani. Inoltre, il vetro trasparente mette in risalto la bellezza della stratificazione tra il caffè scuro e la panna bianca, rendendolo un piacere anche per gli occhi.
Dove lo abbiamo visto
Appuntamento sotto il letto del 1968 con Henry Fonda, Lucille Ball e Van Johnson
Frank e Helen, entrambi vedovi, sono pronti a iniziare una nuova relazione ma trovano difficile rivelare quanti figli hanno: 8 lei, 10 lui. Durante il loro appuntamento, Frank suggerisce di ordinare degli Irish Coffee, pensando che parlarne mentre bevono potrebbe rendere la conversazione più facile. Riflette tra sé: "Parlai di quasi tutto, tranne che dei ragazzi. Pensai che forse sarebbe stato più facile parlandone bevendo un caffè irlandese, quello in cui la panna nasconde due buone dita di whiskey."
Helen tenta di menzionare i bambini, ma Frank la interrompe scherzosamente: "Stasera non esistono bambini. Siamo soli su quest'isola deserta. Tu, io e un indigeno che fa il caffè irlandese."
La serata prende una piega comica quando le ciglia finte di Helen dopo essersi attaccate alla sua palpebra finiscono nel suo caffè e Darrell, un amico di Frank, scherza sul fatto che il caffè "gli sta facendo l'occhietto."
La situazione diventa ancor più caotica quando, in due occasioni distinte, i caffè vengono rovesciati su Darrell nel momento in cui sta per rivelare il numero di figli di entrambi.
La Storia
E se vi dicessi che il Mulled Wine, conosciuto in Italia come Vin Brulé, affonda le sue radici all’epoca dell’antica Roma? Sì, proprio così: questa bevanda calda e speziata, oggi simbolo del Natale e delle fredde serate invernali, ha un’origine che ci porta indietro di secoli, quando i romani la preparavano per riscaldarsi durante le fredde notti di campagna e per prolungare la vita del vino.
Con l’espansione dell’Impero Romano, la tradizione del vino caldo speziato si diffonde in tutta Europa, portando con sé una traccia indelebile della cultura romana. Le legioni e i mercanti diffondono la pratica fino alle terre del Nord Europa, dove il clima rigido rende questa bevanda ancora più apprezzata. Qui, il vino viene arricchito con spezie locali e ingredienti di facile reperibilità, adattandosi ai gusti e alle risorse delle diverse regioni.
Con il Rinascimento, il Mulled Wine conquista un nuovo status. Le spezie esotiche importate dall’Oriente, come noce moscata e chiodi di garofano, si aggiungono alla ricetta, trasformando questa bevanda in un simbolo di lusso e raffinatezza. Anche gli agrumi, un tempo rari e preziosi, entrano a far parte della preparazione. In Inghilterra, il Smoking Bishop diventa una variante celebre, amata dai nobili e persino citata da Charles Dickens nel suo Canto di Natale. Questa versione, arricchita da arance arrostite e sherry, viene servita nei banchetti natalizi, dove il Mulled Wine consolida il suo legame con le festività.
In Germania, il Glühwein diventa protagonista dei mercatini di Natale, accompagnato dai dolci tradizionali come il panforte di Norimberga. Nei Paesi Scandinavi, la bevanda prende il nome di Glogg e si arricchisce di acquavite o cognac, oltre a mandorle e uvetta. Ogni regione europea sviluppa la sua variante, adattando la ricetta ai prodotti locali e alle preferenze culturali.
Il nome
Non c’è niente di più descrittivo di un nome come Mulled Wine. In inglese, il verbo mull significa “riscaldare con spezie”, un riferimento diretto alla tecnica che trasforma il vino rosso in questa bevanda calda e aromatica. In altre culture, il nome varia, ma conserva sempre lo stesso richiamo al calore e agli aromi: Glühwein in Germania, Vin Chaud in Francia, Glogg nei paesi scandinavi. La semplicità del nome inglese riflette l’essenza stessa della bevanda, una tradizione che riscalda i cuori (e i bicchieri) da secoli, accompagnando inverni e festività con il suo profumo speziato.
La ricetta
75 cl di vino rosso corposo (tipo Merlot o Cabernet Sauvignon)
10 cl succo d’arancia
100 g di zucchero di canna
1 arancia tagliata a fette con la buccia
scorza di un limone
6 chiodi di garofano
2 stecche di cannella
1 anice stellato
1 pizzico di noce moscata grattugiata
Come viene servito
Il Mulled Wine anglosassone si serve tradizionalmente in bicchieri robusti, come una tazza di vetro con manico o un bicchiere a pareti spesse, che aiuta a mantenere il calore e rende più pratico gustarlo nelle fredde serate invernali. La trasparenza del vetro consente anche di ammirare il colore profondo e caldo della bevanda.
Per la guarnizione, si predilige la semplicità. Una fetta d’arancia o di limone inserita nel bicchiere aggiunge una nota decorativa e agrumata, mentre una stecca di cannella può essere usata sia come garnish sia come mescolatore.
Dove lo abbiamo visto
La vita è meravigliosa del 1946 con James Stewart e Donna Reed
Il classico di Natale per eccellenza, in cui un uomo che ha perso la speranza viene guidato da un angelo a vedere come sarebbe il mondo se lui non fosse mai nato.
Nella scena in cui compare il cocktail, George e Clarence sono nel bar di Nick. George ordina un doppio gin, mentre Clarence, indeciso, esita: "Ci sto pensando." Ridacchiando, aggiunge: "È tanto tempo che non..." La fretta del barista lo interrompe: "Sentite, signore, io ho da fare, dovete far presto a decidervi." Clarence risponde con educazione: "Grazie buon uomo, stavo pensando a un buon punch al rum." Poi si corregge: "No, no, non fa abbastanza freddo per il punch. Un momento, un momento. Ho deciso: vino cotto (in inglese dice Mulled Wine), con molta cannella e poco garofano. Roba dei miei tempi."
Nick, irritato, ribatte: "Sentite, signore, in questo bar serviamo roba per ubriacarsi presto e non vogliamo tra i piedi tipi come voi per dare alla bottega color locale.
È chiaro o vi devo convincere a suon di pugni?"
George cerca di calmare la situazione: "Ehi, Nick, dagli quello che hai dato a me, è un buon diavolo."
Chi avrebbe mai detto che l’Eggnog, la bevanda che oggi consideriamo il simbolo del Natale, ha origini che risalgono al Medioevo? Questo drink cremoso, avvolgente e speziato nasce secoli fa in Gran Bretagna, ma il suo viaggio lo porta ben oltre, fino alle colonie americane, dove si trasforma in una tradizione natalizia amata ancora oggi.
Ma la sua storia non finisce qui. Con il passare dei secoli, il posset si trasforma e approda nei pub di Londra, dove acquista un carattere più robusto e alcolico. È qui che si gettano le basi per la bevanda che conosciamo oggi. Tuttavia, il salto decisivo avviene quando attraversa l’Oceano Atlantico.
Nelle colonie americane, gli ingredienti fondamentali dell’Eggnog trovano un terreno fertile. Le fattorie locali abbondano di polli e mucche, garantendo una scorta continua di uova e latte. E poi c’è il rum, economico e facilmente reperibile grazie ai commerci con i Caraibi. È proprio il rum a sostituire sherry e brandy, dando al posset un nuovo nome: egg-n-grog, che presto si accorcia in eggnog.
Il nome
Le uova, protagoniste indiscusse di questa bevanda, si riflettono già nel nome: Eggnog. Ma cosa significa nog? Alcuni sostengono che derivi da noggin, una piccola tazza di legno usata per servire bevande calde, mentre altri collegano il termine al grog, il rum caraibico spesso utilizzato nella preparazione. Qualunque sia la sua origine, questo nome breve e sonoro cattura perfettamente l’essenza del cocktail: un mix opulento e avvolgente, simbolo delle feste natalizie, capace di racchiudere il calore delle tradizioni e la semplicità delle sue radici. In alcuni paesi è conosciuto anche come lait de poule o latte di gallina.
La ricetta
4 cl di brandy
5 cl di latte
1 cl di sciroppo di zucchero
1 tuorlo d’uovo fresco
Come viene servito
L'Eggnog è una bevanda versatile che può essere servita in diversi tipi di bicchieri, a seconda delle preferenze e delle occasioni. Tradizionalmente, viene servito in bicchieri bassi come il tumbler o in tazze di vetro con manico, ideali per mantenere la temperatura e facilitare la degustazione. Per una presentazione più elegante o scenografica si può utilizzare il bicchiere highball, più alto e slanciato. La guarnizione è una semplice spolverata di noce moscata, ma si possono aggiungere anche stecche di cannella o scorze di agrumi per un tocco decorativo e aromatico in più.
Dove lo abbiamo visto
L’orribile verità del 1937 con Cary Grant e Irene Dunne
In questa commedia del remarriage, che tipicamente narra di una coppia che divorzia e poi si ritrova, il cocktail compare all'inizio del film. Cary Grant, tornando a casa con amici, scopre l'assenza della moglie e chiede alla cameriera Celeste di preparare dell'eggnog. Mentre serve gli ospiti, arricchisce ogni
bicchiere con una spolverata di noce moscata da una bottiglietta d'argento.
La tensione sale quando la moglie arriva con un misterioso accompagnatore.
Grant, con espressioni irresistibili, usa l'eggnog per affrontare il "rivale" con sottile ironia.
4) Hot Toddy
C’è stato un tempo in cui affrontare le lunghe e fredde serate invernali richiedeva più di una coperta e un camino acceso. In Scozia, nel XVIII secolo, il whisky era il protagonista indiscusso della convivialità, ma il suo sapore intenso e affumicato non era per tutti. Per renderlo più gradevole e accessibile, qualcuno iniziò a mescolarlo con acqua calda, miele e limone, aggiungendo talvolta spezie come cannella o chiodi di garofano. La miscela non solo ammorbidiva il carattere del whisky, ma offriva anche un sollievo per i malanni stagionali: il miele leniva la gola, il limone forniva una dose di vitamina C, e il calore aiutava a rilassare i muscoli. Questo semplice rimedio divenne presto una tradizione, unendo necessità e piacere.
Ma questa è solo una delle teorie. Una seconda ipotesi sulle origini dell’Hot Toddy ci porta nella lontana India del XVII secolo, dove il termine hindi taddy indicava una bevanda fermentata a base di linfa di palma. Gli ufficiali britannici, affascinati dal calore e dalla dolcezza di questa miscela, portarono l’idea nel Regno Unito. Qui, adattandola agli ingredienti locali, iniziarono a preparare bevande calde con whisky, zucchero e spezie provenienti dalle rotte commerciali dell’Impero Britannico. Questa influenza coloniale potrebbe essersi mescolata con la tradizione scozzese, dando vita a una nuova versione della bevanda che conosciamo oggi.
A complicare ulteriormente il racconto, c’è una terza storia. Nel XIX secolo, il dottor Robert Bentley Todd, un medico irlandese, prescriveva ai suoi pazienti un rimedio caldo a base di brandy, zucchero e cannella, credendo che questa miscela potesse alleviare i sintomi di raffreddori e influenze. Sebbene il dottore non fosse direttamente collegato alle versioni precedenti, è possibile che il suo "rimedio" abbia contribuito a consolidare la fama dell’Hot Toddy come bevanda curativa.
Non finisce qui. L’Hot Toddy attraversa l’Oceano Atlantico e arriva nelle colonie americane, dove si adatta ai gusti e agli ingredienti locali. Il rum caraibico e il brandy prodotto a livello locale prendono il posto del whisky scozzese. Tè caldo e sidro speziato vengono spesso utilizzati come base, e nuovi aromi come arancia, cannella e chiodi di garofano arricchiscono il mix. Questo rende l’Hot Toddy una bevanda incredibilmente versatile, adatta a qualsiasi occasione o palato.
Nel frattempo, l’Hot Toddy continua a essere celebrato anche come rimedio per il raffreddore. Nel 1837, un articolo del Burlington Free Press lo definisce “il miglior stimolante caldo” per guarire da un raffreddore, consigliando di somministrarlo anche ai bambini come parte di un protocollo casalingo. Questa fama si estende rapidamente, consolidando il ruolo dell’Hot Toddy come un’icona dell’inverno.
Il nome
Dietro il nome Hot Toddy si cela un viaggio che attraversa culture e continenti. Alcuni storici lo collegano al taddy indiano, una bevanda fermentata a base di linfa di palma, portata in Europa dai britannici durante il periodo coloniale. Altri, invece, fanno riferimento a Tod’s Well, una sorgente d’acqua famosa a Edimburgo, utilizzata per creare la prima versione del drink. Sebbene l’origine esatta resti avvolta nel mistero, il nome Toddy è diventato sinonimo di una bevanda calda, speziata e confortante, perfetta per affrontare le fredde serate d’inverno.
La ricetta
4,5 cl di whisky
12 cl di acqua molto calda
1,5 cl di succo di limone fresco
2 cucchiaini di miele
1 stecca di cannella
Alcuni chiodi di garofano
Come viene servito
L’Hot Toddy si serve in un bicchiere resistente al calore, come una tazza di vetro con manico o un bicchiere old-fashioned adatto a contenere liquidi caldi. Questo tipo di bicchiere permette di sorseggiare il drink senza scottarsi e di mantenere a lungo la temperatura del cocktail.
La presentazione è semplice ma raffinata: una fetta di limone infilzata con chiodi di garofano è un garnish classico, mentre una stecca di cannella, che rimane immersa nel bicchiere, aggiunge un ulteriore strato di profumo e calore.
Dove lo abbiamo visto
Un sacco d’oro del 1941 con James Stewart e Paulette Goddard
Il film racconta di Jimmy, un giovane appassionato di musica che si ritrova coinvolto nel conflitto tra il suo ricco zio Charlie, un rigido uomo d'affari, e un gruppo di musicisti che sfidano le sue severe regole.
Il cocktail, in questo caso, non viene mostrato ma solo nominato.
Dopo una giornata turbolenta (che non vi svelo per non togliervi il piacere di scoprirla), lo zio Charlie accetta di ospitare Jimmy a casa sua. La sera, tornato a casa, gli mostra la stanza dove dormirà e, con fare accomodante, gli dice per farlo sentire a suo agio: "Questa è la mia stanza, se hai bisogno di me. Ora vado a farmi un bagno caldo, un hot toddy e poi a letto."
La battuta, con il suo tono rassicurante e il riferimento al rilassante hot toddy, aggiunge un tocco di calore e umanità al personaggio, bilanciando le tensioni che emergono nel resto della storia.
Per oggi siamo giunti alla fine del viaggio. Non importa se si tratti di un Eggnog, di un Irish Coffee, di un Mulled Wine o di un Hot Toddy: ogni cocktail caldo porta con sé non solo sapori avvolgenti, ma anche una storia che scalda l’anima. Sono bevande nate per affrontare il freddo, ma che hanno finito per scaldare anche il cuore, diventando simboli di convivialità e momenti di pausa in cui il tempo sembra rallentare. E come ci insegnano i film, un drink caldo può diventare un protagonista inaspettato, capace di raccontare molto più di quanto ci si aspetti, in una scena o nella vita reale. Perché a volte, la magia sta proprio nelle piccole cose: un bicchiere fumante tra le mani e una storia che vale la pena raccontare.
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